Milo Rau: dall’attivismo all’arte
È uno degli artisti di teatro più noti a livello internazionale, le sue opere sono rappresentate nei maggiori teatri europei, i suoi progetti lasciano sempre una scia di prese di posizione, fra rifiuti e entusiastiche adesioni. Milo Rau si è imposto sulla scena mondiale proprio per questa sua qualità: il suo teatro non lascia indifferenti. Con il volume Realismo Globale, tradotto in esclusiva da Cue Press nel 2019, prima raccolta compiuta degli scritti del regista svizzero apparsa in Italia, il lettore può confrontarsi con dichiarazioni di poetica per teatro politico in senso compiuto, perché riguarda la ‘polis globale’ nella quale tutti viviamo. Suddiviso in una prima parte di interviste e in una seconda di scritti originali, il volume mette in luce i cardini di un teatro a vocazione documentaria che sta influenzando diverse generazioni di spettatori e artisti: dal rifiuto della rappresentazione classica all’efficacia a cui l’arte deve tendere, dalle teorie sulla recitazione e la scrittura teatrale per il nuovo millennio alle collettività di spettatori e cittadini che il teatro mondiale deve convocare.
Rau: dall’attivismo all’arte, e ritorno
Prima di diventare una ‘popstar’ del teatro europeo, Rau si costruisce una solida formazione in studi sociologici, con maestri come Todorov e Bourdieu. Fino ai trent’anni si dedica all’attivismo, viaggia a Cuba e nel Chiapas per conoscere coi propri occhi. Arriva un momento in cui decide che il teatro è la sua arena, il luogo dal quale agire per tentare di cambiare la società, fonda nel 2007 la sua compagnia, denominata IIPM International Istitute of Political Murder, e nel 2017 è nominato direttore artistico del Teatro Municipale di Gent. Nel mezzo molti riconoscimenti, premi e ospitalità di prestigio, dal Festival di Avignone alla Schaubühne di Berlino.
L’edizione italiana di Realismo Globale, curata da Silvia Gussoni e Francesco Alberici, è impreziosita dall’introduzione di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, fondatori e direttori della compagnia Teatro delle Albe, che scrivono: «Siamo davanti a un uomo di teatro che fino a trent’anni è stato un «attivista», e che poi, nel momento in cui ha trasformato in linguaggio artistico la sua sete di giustizia, non ha abbandonato le periferie e le trincee della Storia per accomodarsi nei salotti, ma quelle trincee, dal Congo alla Romania del dopo Ceauşescu, da Cuba alla feroce Russia di Putin, le ha rese un palcoscenico antico, ‘tragico’ nel senso in cui già lo intendevano i greci, in cui fare i conti con Dioniso, con il capro sgozzato, con la verità. Provarci, almeno».
Il processo è lo spettacolo
Quasi tutti i lavori di Rau sono molto di più che semplici spettacoli. Le prove, i casting, le fasi preparatorie vengono infatti aperte, con l’obiettivo di farne concreti ‘accadimenti’ capaci di generare risonanze tanto quanto gli spettacoli stessi, sia in chi partecipa sia in chi assiste. Orestes in Mosul, che ha debuttato nel 2019, ha visto una lunga gestazione in Iraq, proprio nei territori teatro di battaglie e bombardamenti contro l’IS, prima di divenire uno spettacolo che testimonia la presa del potere, la caduta e l’instaurarsi di un nuovo potere, come nella saga degli Atridi. Il nuovo vangelo è un film prodotto nello stesso anno e presentato alla Biennale cinema nel 2020, ma è anche un’azione teatrale espansa in più mesi in diverse regioni, andando in cerca degli odierni apostoli nei campi di raccolta di pomodori fra Puglia e Basilicata, incontrando lavoratori irregolari e spesso offrendo loro un lavoro, mescolando il piano della finzione con una lotta per i diritti portata avanti con vere azioni collettive e con la fondazione di una cooperativa di braccianti. Nel 2015 The Congo Tribunal ha chiamato a testimoniare vittime, carnefici e testimoni per diverse ore consecutive, con l’obiettivo di rievocare la seconda guerra del Congo in una sorta di processo fittizio ma probabilmente più reale di quelli tradizionali. Scrive Rau: «Realismo non significa che si rappresenta qualcosa di reale, ma che la rappresentazione è essa stessa reale; significa produrre una situazione che porti in sé tutte le conseguenze del reale per i partecipanti, una situazione che sia moralmente, politicamente ed esistenzialmente aperta».
Un concetto ribadito anche nel Manifesto di Gent, elenco programmatico per punti sul teatro del presente e del futuro, redatto in occasione della presa in carico della direzione artistica del teatro fiammingo (e depositata nel libro): «2. Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.»
Re-enactment e specchi oscuri
Un procedimento tipico del teatro di Milo Rau è la replica di accadimenti del passato, rifatti in scena di fronte agli spettatori: in scena stanno figure talvolta testimoni reali dei fatti narrati, talvolta si tratta di attori estranei ai fatti. In tutti i casi ‘ripetono’ gli eventi: in Five Easy Pieces (2016) ci sono dei bambini in un finto casting che li porterà a inscenare gli eventi di loro coetanei uccisi dal cosiddetto mostro di Marcinelle; in La reprise. Histoire du théâtre (2018) la vicenda è legata a un omicidio omofobo, prima raccontato, poi discusso, poi finalmente ‘rappresentato’ in un gioco di specchi senza fondo, con attori e attrici ripresi in video, amplificati in primi piani che sarebbero impossibili per l’occhio dello spettatore teatrale, che così è invitato a prendere parte a un gorgo dove il massimo della finzione coincide con il massimo del suo svelamento. Avviene qualcosa di simile anche nell’ultimo Grief & Beauty (2022), spettacolo che testimonia gli ultimi istanti di vita di una signora che sceglie l’eutanasia, raccontato da attori e attrici le cui biografie private divengono frammenti collettivi perché, sempre citando un passo di Realismo Globale: «Per me non avrebbe senso usare il teatro per queste storie private, se non fosse necessario come luogo di un’allegoria molto semplice: la trasformazione del destino in racconto».
La lingua teatrale del futuro?
Un’arte, quella di Rau, che dunque sfida le convezioni teatrali del passato e del presente, inscritta in un ‘reality trend’ che sta diffondendo diversi ‘teatri documentari’ ma come poche altre piantata su fondamenti estetici solidi, capaci di forgiare (insieme ad altri artisti europei come Rimini Protokoll, Gob Squad, She She Pop) una lingua teatrale adeguata per i primi vent’anni del millennio, e per quelli successivi.