Getta il libro, stringimi

Marina Fabbri, «L’indice», luglio-agosto 2021.

Lodevole impresa quella di fornire finalmente al lettore italiano la traduzione di un’opera a tratti criptica nella sua complessità ma certamente affascinante. Akropolis è un testo poetico concepito per il teatro nel 1904 da Stanisław Wyspiański, drammaturgo e teorico del teatro, artista visivo, forse il maggiore esponente del modernismo in Polonia. Un saggio dello storico del teatro polacco Dariusz Kosiński fa luce sull’adattamento più famoso di questo testo per il teatro, messo in scena da Jerzy Grotowski nel 1962 in Polonia, fortunatamente ancora visibile in un filmato realizzato dalla tv americana nel 1968. Grotowski aveva così riassunto il senso del dramma di Wyspiański: «Akropolis si svolge sull’Acropoli e allo stesso tempo sulla collina del Wawel, ovvero, in altre parole, sul Wawel che è l’Acropoli polacca, dove l’intera tradizione europea, tutti i suoi motivi, sia della storia biblica che della storia antica, si sono dati una specie di appuntamento. Akropolis si svolge nel ‘cimitero delle tribù’. È proprio lì che assistiamo a un giudizio, per così dire, sui valori della cultura europea, su ciò che in essa è vitale e tragico».

Il Wawel è la collina che sovrasta Cracovia, su cui sorgono una cattedrale e un castello reale che custodiscono i sepolcri e le testimonianze del glorioso passato della nazione. In Akropolis, alcune statue di questi sepolcri, ma anche figure rappresentate nei preziosi arazzi della cattedrale che raccontano storie della Bibbia e dell’Iliade, diventano nella fantasia del poeta i personaggi animati di una schermaglia poetica tutta basata sulla lotta tra il culto romantico dell'eroi- smo sublimato dalla morte, e la for- za prepotente dell’amore, del piacere terreno. Per questo Wyspiański fa dire al personaggio della Fanciulla del monumento a Sołtyk: «Getta il libro, stringimi / e abbracciami, sorella! / Sii l’amato spirito / con cui stanotte vivo! / Cosa ti viene dagli stenti e dalle lacrime dei molti? E cosa dai supplizi del passato? (...). Getta via il libro, gettalo via / e diverremo, sorella mia, / vive, felici, incorrotte!». E poi ancora a Clio, musa della storia: «Via, libro – tortura e prigione / del pensiero e di ogni passione. / Hai avvelenato i cuori».

E questo potrebbe essere uno dei motivi per cui un’opera in teoria così lontana dalla nostra sensibilità ci diventa subito familiare, poiché veicola la ribellione, paradossalmente abbatte i monumenti, o per lo meno ne scrolla via la polvere del patriottismo messianico. L’altro motivo è proprio l’idea stessa all’origine del testo, ovvero la ‘messa in movimento’ delle icone immobili che rappresentano le idee e le credenze di un popolo, quello polacco, immerse in idee e credenze di provenienze antiche, come quelle giudaiche della Bibbia e quelle greche del poema omerico. Come rileva Ceccherelli, per questo si potrebbe auspicare addirittura che «poiché il ‘teatro enorme’ di Wyspiański nasce da un’immaginazione quasi cinematografica, che unisce luoghi, persone, cose, tempi in un insieme in movimento con effetti che la Decima Musa, come e più ancora di Melpomene, potrebbe realizzare in modo efficace, chissà che Akropolis, le cui qualità cinematografiche erano già state notate (...), non possa un giorno fornire una sceneggiatura intrigante anche per un film d’animazione, realizzato naturalmente al computer».

Attenzione però alla furia iconoclasta, che oggi come ieri sperimentiamo nel diffondersi della cancel culture, perché Wyspiański non ne è una vittima, al contrario. Quella di Akropolis infatti non è una passione, ma una resurrezione, essendo quello pasquale il rito a cui si riferisce la Grande Notte in cui si svolge il singolare concilio di statue e figure del mito. «Non è, quella di Akropolis, la Pasqua consueta, non riguarda le persone in carne e ossa. Tutto avviene sul piano dell’arte, della cultura: a dover ‘alzarsi dai morti’ (così letteralmente ‘risorgere’ in polacco) è la cultura polacca, ipostatizzata nel Wawel, che deve perdere la sua connotazione di sepolcreto della nazione». Un appello alla resurrezione per le sorti disgraziate di questo paese, perennemente in preda ai drammi della storia ma anche dilaniato da quelli tutti autoctoni della politica.

vedi anche: