Giorgio Strehler Cuore, pancia, cervello e sesso
Maurizio Porro, «Corriere della Sera».
È sempre l’ora di un centenario: l’anno scorso è stato ricordato Federico Fellini, mentre Gianrico Tedeschi e Franca Valeri ci hanno pensato da soli a soffiare sulle candeline del 2020; nel 2022 ci saranno Pier Paolo Pasolini e Ugo Tognazzi e nel corso del 2021 ci sono anniversari intestati a grandi personalità come Leonardo Sciascia, Gianni Agnelli, Alida Valli, Nino Manfredi. E il 14 agosto sarà il turno di uno dei più grandi registi del mondo, Giorgio Strehler, leonino come la sua data di nascita. Con lui, fondatore con Paolo Grassi nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano il teatro è divenuto pubblico, d’arte, per tutti, con spettacoli memorabili in tutto il mondo: Shakespeare, Brecht, Pirandello, Goldoni, Čechov oggi li vediamo con i suoi occhi. Con lui, Luchino Visconti, Orazio Costa, Luigi Squarzina, Massimo Castri, e poi Luca Ronconi — un genio che ha diretto il Piccolo per vent’anni nei modi opposti al fondatore — abbiamo scoperto quanto è importante il regista.
A cent’anni dalla nascita triestina e a 23 dalla morte la notte di Natale del 1997 a Lugano, mentre sono già cominciate le celebrazioni e stanno per uscire due volumi — 20 lezioni su Giorgio Strehler di Alberto Bentoglio (Cue Press) e Il ragazzo di Trieste di Cristina Battocletti (La nave di Teseo) — Andrea Jonasson, grande attrice di formazione tedesca, moglie primadonna di Strehler, lo ricorda in esclusiva per «la Lettura».
Andrea, come passerà il 14 agosto 2021?
«Parlando con lui, con Giorgio, come faccio tutti i giorni, con un bel mazzo di gigli bianchi e margherite che gli piacevano tanto».
Che pensieri le suggerisce la data?
«Che Giorgio odiava invecchiare: voglio vivere in piena forma fisica e artistica, non su una sedia, diceva. Non desiderava arrivare a cent’anni, magari sarebbe diventato un grande saggio, un uomo del mare fermo su una barca».
Strehler è stato dimenticato?
«Temo di sì, un po’. I tempi sono molto cambiati. Da anni non lavoro in Italia e quindi non lo so, ma qui in Austria si sente parlare poco di lui, a meno che non lo faccia io».
Qual è stato il suo più grande insegnamento?
«Libera la tua fantasia, sbaglia, continua a dubitare, usa anche la leggerezza. Difficile raccontare un genio».
Che debito abbiamo con lui?
«Faceva un teatro comprensibile a tutti: una sera il fisico Carlo Rubbia, il Premio Nobel, ci disse che vedere le prove di Strehler era meglio che guardare le stelle».
Com’è stato vivere con lui?
«Miracoloso, bellissimo, difficile per le rinunce, ma la vita con lui era sempre magica».
I momenti più magici?
«Tutti erano ‘più’. Era meraviglioso vivere con un grande, temevo di non essere alla sua altezza. Era magia vedere le sue prove, era un’avventura recitare diretta da lui».
Come fu il vostro incontro a Vienna nel 1972?
«Recitavo Botho Strauss e Giorgio era venuto per il cast del Gioco dei potenti. Mi fece chiamare, scesi la scala per raggiungerlo e si complimentò per il vestito nero: guai, disse, mettere un abito a fiorellini o le scarpe rosse, non saranno mai in scena con me. Poi raccontò in due minuti chi sarei stata nello spettacolo, la regina Margherita, e rimasi senza parole. Mi affidò la parte e se ne andò».
Quant’è stato brutto l’ultimo periodo di lontananza?
«Nessun commento. Posso solo dire che nessuno è incolpevole».
Riusciva a sdoppiare il ruolo di moglie e attrice?
«Assolutamente. Lui si scusava se qualche volta era duro, durissimo, diceva che lo faceva per gli altri colleghi, voleva far capire che non faceva differenze. Era severo ma sempre e solo per amore, amava gli attori, non era un tiranno. Aveva il nervosismo di van Gogh quando non trovava il giallo giusto per i suoi fiori; allo stesso modo Giorgio cercava una luce, un’intonazione, una pausa».
Che spettacolo ricorda con nostalgia?
«Il gioco dei potenti a Salisburgo perché alle prove un giorno si mise alle mie spalle di regina e mi disse: ich liebe dich, ti amo, ti amo, ti amo. Credevo di svenire».
In che cosa non è stato capito?
«Era comprensibile per tutti. E tutti l’hanno capito».
Chi sono i suoi allievi?
«Sono morti, quelli bravissimi come Patrice Chèreau e gli altri. C’è solo Lluís Pasqual suo allievo, ma credo che oggi nessuno dica che vuole fare uno spettacolo alla Strehler. Penso che ci sia ancora molta invidia».
Quale fu la serata peggiore vissuta con lui.
«Quando ricevette un avviso di garanzia, una questione burocratica sui finanziamenti del teatro. Era ingiusto, infatti fu assolto, ma fu terribile. Lui voleva morire: la notte in cui portarono l’avviso eravamo tornati da una serata per i Mémoires di Goldoni a Pavia con laurea...».
E quella migliore?
«Ma caro... Sono tante le serate migliori. Per me la prima dell’Anima buona di Sezuan, in italiano, ed era una battaglia vinta. E quando, dopo le prime, si tornava a casa, aprivamo lo champagne e lui diceva: glielo abbiamo messo nel c... anche questa volta. Ma no, non scriverlo».
Useremo i puntini... E le gite in mare?
«Dopo i debutti si chiudeva come un orso in una tana in silenzio, al buio, anche depresso. Poi si andava al mare e ci saltava dentro come un pesce: un giorno avevamo in barca un modellino dei Mémoires di Goldoni con piccole candeline accese, e a un certo punto prese fuoco. Io ci buttai il mare per spegnerlo ma rimase un modellino incenerito: ora so — mi disse — come inizio lo spettacolo, con Goldoni vecchio che guarda lo scempio del teatro che andò davvero a fuoco».
Cosa le sarebbe piaciuto interpretare con lui?
«Prima della terribile notte del 1997 mi disse: finito il Così fan tutte, ti giuro che torno a Milano, e iniziamo a fare un Antonio e Cleopatra vecchi, anche se notai che avevo 22 anni meno di lui. Se ne andò a Lugano perché io in casa avevo le mie sorelle per Natale e non ci stavamo tutti. Disse: torno dopodomani e parliamo del futuro».
Che cosa le ha mostrato di Milano?
«Aveva poco tempo, studiava o provava, ma mi ha mostrato la bellezza dei giardini di Milano, che non è affatto una città grigia. E mi ha portato a vedere L’ultima cena di Leonardo, una sera, noi, solo noi».
E poi c’era Paolo Grassi...
«L’ho sempre visto insieme alla moglie Nina Vinchi, la segretaria generale del Piccolo, si dicevano cose carine tra loro, Giorgio lo prendeva in giro per l’erre moscia».
Come giudica i vent’anni di Ronconi al Piccolo?
«Era un grande, ma l’opposto totale di Strehler, perché Luca era un intellettuale, un po’ cervellotico, mentre Giorgio sosteneva che un regista deve avere cuore, pancia, cervello e sesso».
Chi sono i suoi amici del Piccolo?
«Non ci recito da dieci anni, ormai ho pochi contatti, i grandi amici sono morti; sento ogni tanto Ornella Vanoni che mi diverte, Giulia Lazzarini, Franca Nuti e Giancarlo Dettori...».
Chi l’ha avvertita della disgrazia la notte di Natale?
«Mamma mia. Parlare di questo mi fa troppo male. Non posso. Fu l’autista che mi suonò alla porta di via Medici, ma davvero ricordare fa troppo male. Pensai che non era vero, che era uno sbaglio, perché se invece fosse stato così, allora la mia vita sarebbe finita. È stato così...».
Come ricorda i funerali di Strehler con la folla, quasi l’isteria degna di Rodolfo Valentino?
«Vero. Ero sotto choc. Ma sentivo un amore immenso da ogni balcone, da ogni finestra; era tutto incredibile».
Come vivrebbe oggi Giorgio?
«Male. Malissimo. Non lo vedo alle prese con il digitale, un gigante come lui avrebbe potuto stare a riposo e da solo? Forse si sarebbe messo a scrivere, ma diceva sempre che non voleva scrivere di sé perché non sapeva spiegare il segreto dell’ispirazione delle sue regie. Di sicuro amava la platea piena e non una sala virtuale».
Quando le viene in mente Strehler?
«Sempre e soprattutto quando mi annoio a teatro, cioè quasi sempre. Da mattina a notte mi è sempre accanto, gli parlo, con lui non mi sono mai annoiata. Lo penso con gratitudine, per avermi regalato 24 anni di avventure di teatro con pazienza e amore».
Lo sogna?
«Ogni tanto, ed è sempre agile, di corsa, bello, scappa da una parte all’altra come da vivo. Una notte ho sognato che stavo entrando in un aereo con l’urna delle sue ceneri ma dentro c’era il profumo che usava lui alla lavanda. Giorgio alle mia spalle mi diceva: sono qui».
Cosa rimpiangeva di non aver fatto in teatro?
«L’Amleto. Voleva farlo con lo spettro del padre dentro il corpo di Amleto, come uno sdoppiamento, un dialogo con sé stesso. E poi naturalmente la vita di Goldoni».
Esiste un nome per il suo stile?
«Teatro umano, comprensibile a tutti, moderno e antico. Diceva sempre di voler essere fedele ai suoi autori».
Com’è cambiato il teatro in questi anni?
«Oggi il teatro è spesso noioso, tradisce invece molto gli autori, il regista stravolge come m’è capitato vedere con Strindberg e Ibsen. E si usano troppi video».
Giorgio era davvero un monaco del palcoscenico?
«Direi di sì. Si chiudeva nel buio, pensando e soffrendo. Ed era davvero un monaco, viveva una grande solitudine dal fondo della quale poi creava, in cui s’ispirava».
A chi voleva bene?
«A tutti i suoi attori, ai tecnici, a tutti, compresi i pessimi. Voleva bene al mondo, questo esprimeva con il suo teatro che era un atto d’amore».
Il suo rapporto con le donne?
«Adorava le donne, era innamorato, era un uomo vanitoso, amava l’idea che le donne lo amassero. Io non ero troppo gelosa, ero orgogliosa perché mi piaceva avere un uomo che affascinava le altre».
Qual era l’arma di seduzione di Strehler?
«L’arma? La vivace saggezza, l’umore, il temperamento, il suo buon profumo selvatico al rosmarino oggi scomparso».
Il più grande rimpianto?
«Non avere avuto figli, lui diceva che il figlio era il Piccolo. Se avessimo avuto una figlia Giorgio avrebbe voluto chiamarla Ombra, che oggi è la mia cagnolina».