Impulsiva nevrotica mutevole. La sfuggente Hedda Gabler di Ibsen. Metafora d’un mondo di vite sciupate, senza amore
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Sono tante ‘le figlie’ di Ibsen, ciascuna con un proprio carattere ben definito, conseguenza di storie passate e presenti. Non credo, però, che egli abbia espresso delle preferenze, benché le abbia dimostrate per Hedda, forse perché la più sfuggente e con caratteristiche più indeterminate rispetto alle altre. Anzi, è proprio l’indeterminatezza a farne un personaggio complesso.
Paolo Puppa, autore del saggio La figlia di Ibsen – Lettura di Hedda Gabler, edito da Cue Press, cita addirittura il Principio di indeterminazione di Heisenberg, come dire che non è possibile misurare le proprietà psicologiche di Hedda, poiché si abbandona ai suoi impulsi, alle sue nevrosi, sempre mutevoli.
Mi sono occupato, sulle pagine di questo giornale, di un altro testo di Puppa: Giganti senza fantasmi, definendo ‘circolare’ la sua metodologia esegetica, nel senso che lo studioso sceglie un testo attorno al quale fa girare tutta l’opera di un autore. Lo stesso accade per La figlia di Ibsen, che Puppa pubblicò due anni dopo aver visto la messinscena di Massimo Castri (1980), con Valeria Moriconi protagonista, con in scena un grandissimo ritratto di Ibsen che sostituiva quello del padre, il generale Gabler che, forse, gli ispirò il titolo del libro. In quella occasione, il regista scrisse un saggio sulla crisi del dramma borghese e la nascita del dramma moderno, di cui Ibsen sarebbe l’anticipatore, avendo distrutto l’idea di ottimismo, tipica della borghesia del tempo, quasi anticipando quella dialettica del negativo, che sarà oggetto di analisi in un noto saggio di Adorno. Questa negatività è presente nel personaggio di Hedda a cui si attribuiscono una serie di attributi sfavorevoli, fra i quali spiccano: antipatica, viziata, nervosa, eccentrica, isterica, frigida, benché susciti eros negli uomini che l’avvicinano.
Puppa ne aggiunge di suoi, ritenendola Amazzone, col complesso di Pentesilea e, contemporaneamente, ninfa Egeria, aggiungendo che è una donna sempre annoiata, vivendo con un marito mediocre che disprezza e col quale non ama discutere. A queste anticipazioni, Puppa fa seguire le variazioni, partendo dalle teorie di Mauron, secondo il quale, ogni personaggio di qualche importanza «rappresenta una variazione di una figura mitica e profonda».
Hedda diventa il fulcro da cui partire per fare un inventario delle altre donne di Ibsen, presenti sia nelle opere giovanili che in quelle della maturità. Così, per dimostrare che esistano degli antecedenti caratteriali rispetto a Hedda, Puppa risale a drammi come Cesare e Catilina o Guerrieri a Helgeland, per scoprire donne vendicative, nemiche o lottatrici come Furia o come Hjordis, donne insomma che sanno solo odiare come Hedda. Solo che esistono, rispetto a essa, anche dei contrappesi, quelli di donne sottomesse, di anime subalterne, di donne agapiche, come Agnes in Brand, Aurelia, moglie di Catilina, Solveing in Peer Gynt, donne che si sacrificano come zia Julle o come Thea in Hedda Gabler, che pensano alla felicità altrui, donne che sanno ribellarsi, come Nora.
Puppa fa ruotare, attorno a Hedda, un universo di ‘caratteri’ femminili e maschili, mostrando una conoscenza approfondita di tutto il corpus drammaturgico di Ibsen, evidenziandone i pregi (pochi) e i difetti (molti), anche perché sono in tanti a vivere di ricatti, di simulazioni, di conflitti, sono personaggi che salgono e scendono nella scala sociale, che non si fanno scrupoli nel corrompere, come il console Bernick protagonista di I pilastri della società, non molto dissimile da Peter Stokmann in Il nemico del popolo. Non mancano le figure degli artisti sconfitti, degli artisti mediocri, inquieti, frustrati, che offrono a Puppa nuovi modelli di indagine, che gli permettono di inoltrarsi anche in storie di personaggi non protagonisti come, per esempio, Foldal, tragediografo mancato in John Gabriel Borkman, o John Paulsen, critico letterario con poco avvenire in Notte di San Giovanni. E che dire di Hjalmar, il fotografo artista di L’anitra selvaggia o dello stesso Tesman, filologo medievale di poco conto, marito di Hedda? E ancora come dimenticare l’ebbrezza distruttiva di Brand, Solness, Lovborg, Rubek, di chi sale e di chi scende?
Puppa si muove con leggerezza lungo le tre fasi del teatro di Ibsen, quella storico-epica, quella naturalista e quella simbolista, tre aree culturali in cui lo spazio interno, quello del salotto borghese, si confronta con lo spazio esterno di La donna del mare o di Peer Gynt, uno spazio che deve confrontarsi col tempo sempre diverso, sempre in conflitto tra passato e presente, tra rimozione e regressione, tra sensi di colpa e tormenti quotidiani, dove si intrecciano storie di vite sciupate, di vite senza amore, tra moglie frigide come Hedda o infoiate come Rita in Il piccolo Eyolf.
Puppa non tralascia nulla di questo mondo dai destini opachi, dagli sporchi segreti, lo smonta e lo rimonta come un perfetto orologiaio.