Il mistero del processo creativo, lato oscuro di ogni essere umano. Ma per Stanislavskij è il gesto che rivela l’inconscio
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Negli anni Ottanta furono pubblicati parecchi libri su Stanislavskij, tra i quali ritengo importante Stanislavskij, il lavoro dell’attore sul personaggio (Laterza, 1988), sempre a cura di Malcovati, con una introduzione di Giorgio Strehler e con una serie di scritti, in appendice, alquanto illuminanti, che anticipano alcune teorie raccolte da Toporkov nel volume, edito da Cue Press, Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni. Il metodo delle azioni fisiche, con una dotta introduzione, sempre di Malcovati, utile per capire la svolta della regia russa che mi ha fatto riflettere sulla svolta della regia in Italia, visto che, alla fine degli anni Trenta, fu messo in discussione il metodo del regista russo, così come, verso la fine degli anni Sessanta, fu messa in discussione l’idea registica di Strehler. Durante gli ultimi anni di insegnamento e di vita di Stanislavskij, i giovani registi russi, non certo della sua scuola, si ispiravano al Formalismo, quindi, erano più portati a un tipo di messinscena, i cui caratteri dovevano seguire le nuove teorie che trascuravano il valore della ‘fabula’, ovvero dell’intreccio, con la sua disposizione naturale e con la logica delle azioni, per sostituirla con la logica delle ‘funzioni’.
Verso la fine degli anni Sessanta, una nuova generazione di registi, che si ispiravano alla forma pura, misero in crisi la regia critica di Visconti, Strehler, Squarzina, e, con essa, la funzione dell’intreccio. Come scrisse Strehler, nell’introduzione citata, Stanislavskij, da verbo indiscusso, era stato messo in discussione, compreso il suo mito.
L’autore di questo libro che, in fondo, raccoglie, le indicazioni registiche del maestro durante le prove dei Dissipatori, di Le anime morte e di Tartufo, era stato un attore che aveva conseguito il diploma nel 1909, presso la Scuola teatrale di Pietroburgo. Non contento degli insegnamenti accademici, decise di lavorare sotto la guida di Stanislavskij, il quale, non solo forniva elementi tecnici del mestiere, ma curava la formazione e la crescita culturale dei suoi attori.
A Toporkov era mancato proprio quel processo creativo che fa parte dei lati oscuri di ogni essere umano che sono da attraversare per raggiungere la profondità del personaggio. Compito difficilissimo, a cui si può accedere solo attraverso la psicotecnica, un procedimento che andava oltre la ‘reviviscienza’, in contrasto con l’arte della rappresentazione. Ciò che interessava a Stanislavskij era la logica dell’azione che, negli anni Cinquanta, diventerà il punto di partenza di registi come Vassiliev.
Per il maestro russo, lavorare sul personaggio, voleva dire consolidare la linea delle azioni fisiche, verificare la loro natura e, infine, dare giustificazione delle proprie azioni. In fondo, l’azione fisica non era altro che l’immagine tradotta in gesto, la fisiologia tradotta in psicologia. Lo studio dell’azione diventa, pertanto, un modo di studiare se stessi e capire come si sia passati dal conscio all’inconscio. Toporkov, nei suoi appunti, cercava di cogliere ogni particolare, ogni sfumatura, delle sue indicazioni, lasciandoci anche alcune pagine sulle sue note insoddisfazioni, soprattutto, nei confronti di chi credeva di fare delle ‘regie ardite’, che non giustificavano, però, l’azione degli attori. Sulla scena, tutto va giustificato, le nuove tendenze, diceva, passano come sono venute e aggiungeva che un progetto di regia ‘irrealizzabile’ rimane solo un progetto.
È quanto accade oggi sui nostri palcoscenici, dato che i giovani registi lavorano su progetti che, dopo, non sanno portare a termine, perché privi di quello studio rigoroso che Stanislavskij raccomandava agli attori, i quali debbono prendere atto soltanto delle loro capacità e delle proprie qualità, evitando civetterie e narcisismi.