Dal teatro no al sumo al wrestling Tutto è performance
Rodolfo di Giammarco, «La Repubblica».
A ciò che noi oggi chiamiamo teatro, gli uomini, in un’epoca diversa, davano un altro nome. Le rappresentazioni di Eschilo, Sofocle e Euripide erano rituali. Poi Aristotele codificò un’estetica del teatro. S’affermarono i ‘comportamenti recuperati’, l’arte simile alla vita. Finché adesso azzardiamo che ogni azione è una performance: anche se, a seconda dei contesti culturali e delle pratiche sociali, c’è distinzione tra quotidianità e intrattenimento. Ad aiutarci ad approfondire e a illustrare tutti i fenomeni espressivi c’è, tra i vari strumenti consultabili, Introduzione ai Performance Studies, un quotatissimo libro-manuale dello statunitense Richard Schechner, curato da Dario Tomasello, commentato da Marco De Marinis, la cui ricca dotazione iconografica meriterà un giorno o l’altro, auspichiamo, una mostra al nostro Palazzo delle Esposizioni (come avvenuto per Il corpo della voce su Bene, Berberian e Stratos).
Più che orientarvi a scoperte antropologiche, a codici recitativi e a sperimentazioni sceniche di cui questo volume è un catalogo affascinante, preferisco soffermarmi sul portfolio di immagini che catturano l’occhio declinando un repertorio concitato e cosmopolita di atti performativi. Cito per prima la comparazione tra le smorfie emotive (rabbia, felicità, tristezza, disgusto, ecc..) di soggetti orientali e occidentali. E gli allestimenti remoti di Cechov. Le foto di Woodstock, Le posture della Bill T. Jones Company, del sumo giapponese, di attori di Grotowski, dei wrestler americani, dei danzatori balinesi, dei tennisti di Wimbledon, di un Charles Laughton brechtiano, di un kathakali indiano, di marionettisti di Giava, di Angelica Winkler diretta da Wilson, del subcomandante Marcos, di una prima attrice di teatro no, di una personificazione di Gandhi nel Théatre du Soleil. C’è pure un biglietto di sarcastica protesta antirazzistica negli Usa del 1986.