Le maschere di Totò Fofi racconta il principe del ’900
Rodolfo Di Giammarco, «La Repubblica».
Il comico italiano più popolare del ’900, Antonio de Curtis in arte Totò, cittadino romano per 45 dei suoi 69 anni, residente dal 1922 in poi coi genitori accanto a Termini e in Prati, e poi in cinque abitazioni tutte dislocate nel quartiere Parioli, trionfò man mano sulle scene dello Jovinelli, della Sala Umberto, del Quattro Fontane, del Valle e (dopo la notorietà del cinema) ancora una volta col pubblico, al Sistina. È incontestabile che la sua vocazione più genuina sia da riferirsi alle assi della ribalta, all’avanspettacolo, al variété, all’arte improvvisata, e un libro, Il teatro di Totò. 1932-46 di Goffredo Fofi (il più tempestivo esperto del lavoro del Principe di Bisanzio), sostiene in merito una lucida chiave di lettura. Spiegando il senso della maschera (mimica, contorsionistica, discendente dal sottoproletariato e da pulsioni metafisiche), documentando i fondamentali d’una contagiosa vena disarticolata dell’attore, rintracciabili nei suoi canovacci, nei suoi testi-base, nei suoi sketch a soggetto qui pazientemente riprodotti.
I pezzi scompiglianti e deformati del repertorio in pedana di Totò (distorti come il viso, il naso, la mascella di lui immensa marionetta vivente) sono tutt’oggi materie surreali ma anche vive per entrare in rapporto con la sua irregolarità da figura di Picasso. E questo prontuario di improvvisazioni ruvide a futura memoria di satire sovversive antifasciste e antinaziste degli anni Quaranta (che gli costarono un preavviso d’arresto e una latitanza) fa capire l’animo indocile e imprevedibile di Totò che per quattro volte si misura clamorosamente in scena a Roma con Anna Magnani tra il ’40 e il ’44. Va consultata la qui rozza drammaturgia, con lui in costume d’origine (il ‘fracchesciasse’), per immaginarlo in A prescindere nel ‘56, quando se ne venne giù il Sistina per dargli un commosso bentornato.