Ecco infine il ‘metodo’ Mejerchol’d: lavorare, studiare e faticare. E la ‘biomeccanica’, la distanza critica dal testo
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
La prima edizione degli scritti teatrali di V. Mejerchol’d uscì da Feltrinelli nel 1977, benché Editori Riuniti, nel 1962, avesse pubblicato, a cura di Giovanni Cirino, La rivoluzione teatrale che conteneva una parte dei suoi scritti. Per i registi degli anni Settanta fu una specie di shock, nel senso che trovarono in lui un modello diverso da quello brechtiano, appannaggio del Piccolo e di Strehler.
Ad appropriarsi della lezione del regista russo, fu, in particolare, il Gruppo della Rocca, con Roberto Guicciardini e con Guido De Monticelli, che avvalendosi della mamma Milly, docente di letteratura russa e traduttrice, poté approfondirne il metodo, mettendo in scena Il mandato di Erdman, che Mejerchol’d aveva realizzato nel 1925.
L’ottobre teatrale, 1918-1939, esce in una nuova edizione riveduta e corretta, sempre a cura di Fausto Malcovati, con una sua introduzione e con un più ricco apparato iconografico, anche a colore, presso l’Editore Cue Press. Il volume è diviso in due capitoli con tanti sottotitoli: Mejerchol’d e il suo tempo e Mejerchol’d: il suo teatro. Il lettore, pertanto, si troverà dinanzi a una serie di argomenti che vanno dalla Rivoluzione culturale, che coinvolse tutte le arti e, in particolare, il teatro, affiancato dalla ricerca laboratoriale, dalla pratica della biomeccanica e dalla teorizzazione di una nuova idea di regia, argomenti affrontati durante le conferenze e le lezioni che Mejerchol’d teneva con l’utilizzo esplicativo dei suoi spettacoli, più di quaranta lungo tutto il ventennio.
Il 1918 fu anche l’anno della fucilazione dell’intera famiglia Romanov, e l’inizio di una nuova storia per la Russia. Lenin esortava gli intellettuali a fare in modo che il loro messaggio fosse chiaro, dovendo essere indirizzato al pubblico della Rivoluzione in massima parte analfabeta. I fermenti culturali portarono all’apertura di molti teatri, affiancati da scuole e laboratori, tanto da assistere a una vera e propria proliferazione. Uno dei progetti preferito fu quello del Decentramento, al quale si accompagnò quello del Teatro di Quartiere, entrambi da noi sperimentati durante la rivoluzione sessantottesca. Mejerchol’d fu allievo fedele di Stanislavski che non si stancò di difendere, quando qualcuno metteva in discussione il suo metodo, ritenuto alquanto superato benché con esso il maestro russo si fosse opposto al dilagante naturalismo, divenuto convenzionale e superficiale, nei teatri di Stato.
Mejerchol’d predicava il movimento, il dinamismo, che solo l’attore biomeccanico poteva realizzare sulla scena, dando vita a una forma di straniamento che avrebbe consentito la distanza critica rispetto al testo, anticipando quella del teatro epico di Brecht.
La parte più interessante degli scritti è quella che riguarda il lavoro di regia che, a suo avviso, non si poteva mai improvvisare, essendo fondato sull’approfondimento, sulla preparazione, sullo studio febbrile che concede poco spazio all’improvvisazione, a chi ha la smania di raggiungere un successo immediato e un facile gradimento. Di una cosa Mejerchol’d era certo: che non si possa essere registi di se stessi, perché si concede poco all’interpretazione critica, per raggiungere la quale occorre molto lavoro. Il teatro non si racconta, diceva, si fa con tanta fatica, assumendosene tutte le responsabilità attraverso un periodo abbastanza lungo di preparazione e di maturazione che richiede un ‘doloroso’ processo di analisi. Solo a questo punto, è possibile penetrare il mistero di un classico antico o contemporaneo e afferrare l’inafferrabile.
Consiglio, soprattutto, la lettura a tutti quei giovani che credono di essere registi solo perché mettono in scena un testo.