«Morte e resurrezione del tragico», di Andrea Bisicchia (Lo Spettacoliere)
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere», 30 gennaio 2023
Ma il pensiero è diventato sempre più debole, scavalcato da elettronica e audiovisivi.
Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e in che rapporto si trovasse con la tragedia.
Intanto chiariamo subito che Lehmann intendeva, per postdrammatico, non uno stile, né un genere, né tantomeno una tipologia di forme affini, bensì una vera e propria estensione teatrale, che scavalcava la composizione mentale degli autori dei testi.
Inoltre, riferendosi al teatro che si avviava al terzo millennio, intuì nuove forme di estetica da ricercare nella comunicazione elettronica, nel suono, nell’apporto dei mezzi audiovisivi, insomma, nell’allestimento che corrispondeva, a suo avviso, alla vera scrittura di quello che doveva intendersi come nuovo teatro.
Nel suo libro, Lehmann porta avanti le tesi di Lukács sul Dramma moderno, di Steiner sulla Morte della tragedia di Von Balthasar sulla Teodrammatica, di Artaud sul Teatro della crudeltà, di Szondi sulla Teoria del dramma moderno, testi ai quali, da giovani, ci siamo letteralmente abbeverati. Sappiamo bene che, nel secondo Ottocento, il genere tragico subì la trasformazione in genere drammatico, poiché l’uso della Ragione bastava per sconfiggere gli elementi irrazionali che stavano a base della tragedia. Era sufficiente che, in un salotto borghese, si potesse ragionare per risolvere qualsiasi situazione tragica. Lehmann, però, è andato oltre, ha capito e vuol farci capire che, oggi, la forma drammatica ha perso il suo valore di una volta, perché è stata messa in discussione la scrittura, a vantaggio di un teatro performativo che ha permesso la decostruzione dei testi e, persino, la stessa cornice teatrale in cui vengono realizzati.
Secondo lui, il modello postdrammatico si esaurì con Eliot, Sartre, Anouilh, Brecht, Camus, Singe. Inoltre era convinto che, in occidente, si fosse verificato, a partire da Aristotele, il predominio della cultura scritta che aveva avuto un rapporto determinante col pensiero, ovvero col Logos.
Nella modernità, il pensiero è diventato sempre più debole, tanto da lasciare il posto a una falsa cultura e a una debolezza intellettuale che ha messo in crisi il genere tragico. Nello stesso tempo c’è anche da dire che, sempre la cultura moderna, ha elaborato una sua filosofia del tragico che, a partire da Nietzsche, Jaspers, Heidegger, De Unamuno, arriva fino a Bataille e Lacan, tanto che si può parlare di morte della tragedia, allo stesso modo con cui si può parlare di resurrezione del tragico.
Il teatro ne ha parecchio risentito ed ha assunto, su di sé, le forme della conoscenza, riscoprendo il Logos aristotelico solo per quanto riguarda la messinscena, che è diventata la referente essenziale della tragedia, il cui recupero avviene grazie all’imporsi del Teatro postdrammatico e all’uso che viene fatto durante le realizzazioni sceniche.
Lehmann, per fare capire questa sua teoria, cita una serie di registi e di spettacoli, anche se incompleta, che la dimostrino: si va da Kantor a Jean Fabre, a Romeo Castellucci, a Einar Schleef, a Heiner Muller, a Sarah Kane, tutti attenti a utilizzare la trasgressione, di origine tragica, come metodo compositivo, col ricorso ad un uso spettacolare della violenza, se non addirittura, della crudeltà. Avviene, così, una sorta di messa a nudo della tragedia scelta, fino a disossarla, a emanciparla dalla centralità del testo e a radicalizzarla sulla scena, generando la stessa indignazione negli spettatori di oggi, che non è dissimile da quella degli spettatori del Teatro Predrammatico.
C’è da dire che questo tipo di interventi era già stati fatto da Ronconi quando realizzò la sua Orestea e quando, al Teatro Greco di Siracusa, portò in scena, nel rispetto assoluto del testo, Prometeo e Le Baccanti, ed ancora non si può non citare il lavoro registico di Livermore e di Carson sull’Orestea e sull’Edipo. Ultima considerazione: la tragedia è ‘morta’, anche perché non ci sono più poeti capaci di scrivere dei testi che sappiano drammatizzare le violenze della storia postmoderna.
Il volume è a cura di Milena Massalongo, che è anche autrice della traduzione e di una illuminante presentazione, ed è seguito da una magistrale postfazione di Gerardo Guccini.