«Quando un angelo attraversa la scena. Il teatro di Jon Fosse, Premio Nobel 2023, pubblicato da Cue Press» (Sipario)
Nicola Arrigoni, «Sipario», 25 novembre 2023
«Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo.
Anzi non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro», così scrive Jon Fosse nel saggio Su di me drammaturgo, raccolto in Saggi gnostici, a cura di Franco Perelli, pubblicato da Cue Press (pagine 96, euro 22,99).
A fronte di questa dichiarazione, l’incontro dello scrittore norvegese col teatro, dettato dalla necessità di avere introiti si è rivelato più che felice, stupendo lo stesso autore: «Quando per la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico», scrive il Nobel per la letteratura premiato: «Per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile», si legge in un passo della motivazione elaborata dall’Accademia svedese.
La casa editrice Cue Press ha dedicato una serie di volumi al teatro di Fosse: Teatro, a cura di Vanda Monaco Westersthal che raccoglie i testi: E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome (pagine 146, euro 22,99), Caldo a cura di Franco Perrelli (pagine 82, euro 16,99) e il saggio Quel buio luminoso, sulla drammaturgia di Jon Fosse di Leif Zern, a cura di Vanda Monaco Westerstahl (pagine 98, euro 22,99).
Ed anche per questo la casa editrice, diretta da Mattia Visani, ha ottenuto il Premio Anct, conferito dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro per l’attività messa in atto nella documentazione delle arti performative.
L’indicibile a cui fa riferimento la motivazione del Nobel è il cuore e la scommessa che lanciano i testi di Fosse, testi aperti che hanno fatto pensare a eredità beckettiane, mischiate ad ascendenze ibseniane e strindberghiane, quando non a brevità e icasticità delle battute, proprie del miglior Pinter.
Sono questi suggestioni e punti di riferimento che aiutano il lettore a cercare una bussola possibile nell’incontro con i personaggi di Fosse spesso indicati semplicemente con Lei, Lui, Un uomo, Una donna, Una ragazza, Il Padre, il Ragazzo.
Nessun appiglio, nessuna apparente identità nominale aiutano a definire i personaggi in scena, lasciando lo spettatore/lettore del tutto disorientato, di fronte a quei dialoghi in cui possono più le pause e i non detto.
La scena è spesso un luogo apparentemente definito: una stanza, una casa, il pontile che dà sul mare, in quello spazio, definito, lo sguardo va oltre, spesso oltre l’orizzonte, oltre una finestra.
Elementi d’arredo come fotografie, un tavolo, un divano diventano strumenti di un rito che porta i personaggi a muoversi con precisione e pochi gesti, in una cadenza di azioni che nel suo ripetersi cerca di far emergere ciò che non è detto.
Le battute spesso si ripetono, vivono di un ritmo franto a tratti ossessivo e contribuisco a definire una condizione di sospensione in cui i personaggi attendono o semplicemente cercano di fare i conti con loro stessi, in una condizione di pausa protratta che assomiglia a una sorta di apnea dell’anima.
Non è un caso che Fosse usi come esergo del testo E non ci separeremo mai i versi di Dante: «Io non mori’ e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e l’altro privo»: è questa la condizione dei personaggi di Fosse sempre in bilico fra essere e non essere. In E non ci separeremo mai, Lei attende Lui, ma al tempo stesso dice di bastare a sé stessa e ad un certo punto lui si presenta, ma intesse un dialogo con La ragazza.
È come se – e qui c’è l’altro aspetto del teatro di Fosse – se i piani temporali si sovrapponessero, se passato e presente coesistessero nel qui e ora della scena.
E ciò è evidente in Caldo in cui due uomini si incontrano su un pontile, sullo sfondo una casa e dinnanzi il mare, il ricordo di una donna in costume nero.
Di primo acchito i due uomini potrebbero sembrare due volti della stessa persona, ma poi è la donna stessa a distinguerli: «tutt’e due, in un certo momento della vita, hanno incontrato la donna in quel luogo astratto e l’hanno amata dentro la misteriosa casa alle loro spalle – scrive Perrelli -.
Caldo disvelerebbe una caparbia concretezza dell’esistere, quantunque inquadrato nell’indeterminatezza del tempo e dello spazio».
A fronte di situazioni apparentemente quotidiane in cui fa capolino la gelosia come motore o pungolo, la narrazione relazionale, lo sviluppo emotivo sono raggelati e trovano una loro sostanza e realizzazione nella condizione di attesa, in un andare e venire, entrare e uscire che rappresentano – spazialmente – ciò che le pause concedono al tempo dell’azione.
Tutto ciò in una dimensione di scarto continuo per l’autore, per lo spettatore, uno scarto che nasce dalla scrittura, dal suo compiersi sulla pagina come sulla scena.
È come se parola dopo parola – pur in un controllato uso delle battute e della loro ritmica interna – i personaggi prendessero corpo dalle parole, fossero tutti nelle pause, nei silenzi, nei gesti oltre che nelle battute che dicono, senza definirli, perché questo tocca al lettore/spettatore.
«Scrivo senza pensare a niente, bensì ascolto.
Così si forma la storia, è come se non fossi io a scrivere, per me scrivere è come pregare, scrivere per me è ascoltare.
Ascolto senza prefigurarmi la scena: i personaggi si muovono in uno spazio emotivo», scrive Fosse.
In tal senso appare illuminante quanto scrive Vanda Monaco Westersthal nella prefazione al volume Teatro: «Nel teatro di Fosse la trama (non è racconto, non ha significato) è un atto esperienziale che si forma nel rapporto tra il mondo interiore dell’artista e il testo.
Le tensioni e i conflitti hanno origini dai silenzi, dalle pause, dai movimenti».
Nei Saggi gnostici lo stesso Fosse dà conto di cosa sia la scrittura per lui: «un luogo nel quale viene a esistere qualcosa di sconosciuto, qualcosa che prima non c’era.
Questo, che lo scrivere sia lo stato in cui qualcosa, in un certo senso, persino un intero universo, è creato e viene a esistere per la prima volta, è forse ciò che mi dà maggior gioia nello scrivere».
Ciò che offrono i volumi editi da Cue Press nel loro complesso è uno spaccato illuminante dell’arte di Fosse.
I testi pubblicati, sorretti dai due volumi saggistici, offrono uno spaccato non solo del teatro del Premio Nobel, ma anche della sua estetica, del suo pensiero di scrittore che va oltre, che non teme di passare il limite, che va in cerca di quei confini invisibili in cui essere e non essere possono coesistere, dialogare in piani temporali sovrapposti, in luoghi che nella loro definizione si offrono come punti di vista su ciò che è indicibile e invisibile.
Per questo Leif Zern parlando del teatro e della scrittura di Fosse non può che parlare di buio luminoso, un ossimoro che bene sintetizza la drammaturgia di Fosse e la sua scrittura capaci di «creare quella percezione della distanza che in Fosse è un equilibrio tra l’assenza e la presenza, tra l’angoscia e la sensazione di libertà che si trovano nel vuoto».
E allora si può dire del teatro e della scrittura di Fosse quello che in Ungheria affermano di uno spettacolo che sa essere illuminante e di straordinaria intensità, ovvero che un angelo attraversa la scena.
Ecco nei suoi testi, nella sua scrittura Jon Fosse va in cerca dell’angelo, di quell’angelo che attraversa le pagine, ci immette in un’intensità «che è nel contempo pregna di una comprensione che prende tutto l’essere, quantunque non sia facile da spiegare», scrive l’autore dei Saggi gnostici.
Ecco si cede che questo vada cercando il Premio Nobel della letteratura nei suoi testi letterari e teatrali, e non è cosa da poco.