Io, l'altro. Il teatro di Sergio Blanco

Alessandro Iachino, «Teatro e Critica».

Un Quinta di copertina per introdurre due volumi editi da Cue Press, entrambi riguardano il drammaturgo franco-uruguaiano Sergio Blanco.

Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di mondo, ora di restringersi e contrarsi in recessi di ombra. È tutto qui – ed è così immenso – lo spazio nel quale Sergio Blanco si muove e muove con sé una piccola folla di anime: un paesaggio che lo scrittore franco-uruguaiano, più che cartografare, di volta in volta inventa, edifica in atti e battute, in scene e prologhi che meticciano l’autobiografia con l’invenzione. Lungi dal costituire una declinazione inedita di un genere canonico, l’autofinzione – termine coniato da Serge Doubrovsky già nel 1977 per descrivere il proprio romanzo Fils – sembra però aver trovato, grazie a Blanco e alle sue tante creazioni, una peculiare legittimazione etico-politica, grazie alla quale tentare di schivare qualsiasi facile accusa di attitudine ‘ombelicale’ – invero più diffusa in ambito letterario che teatrale – e tradurre in «espressione del bisogno di sentirsi amati», in «urgenza dell’incontro con l’altro» l’ormai nota trasposizione sul palco di brandelli di vita vissuta: e sognata.

Pubblicato da Cue Press nella collana Gli artisti e tradotto da Anabella Caneddu, Autofinzione. L’ingegneria dell’io è il breve saggio – inteso dall’autore nel suo senso di «prova, luogo di dubbi, di quesiti e interrogativi» – con il quale Blanco offre ai lettori la propria interpretazione di tale dispositivo narrativo, individuando – forse con un approccio eccessivamente antologico e sommario – una serie di ‘scritture sull’io’ nelle quali riscontrarne le forme prodromiche e i primi tentativi di sistematizzazione: dalla Lettera ai Galati di San Paolo al Libro della Vita di Santa Teresa, dall’Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault alle riflessioni di Virginie Despentes e Paul Ricoeur. È tuttavia nella sezione conclusiva del volume, intitolata Domande a me stesso: perché l’autofinzione?, che Blanco affonda lo sguardo nel processo creativo, giustapponendo a un ‘decalogo di un tentativo di autofinzione’ sezioni tratte dalle sue opere, in un inesausto scambio tra teorizzazione e risvolto scenico, tra idea e parola, tra scrittura e teatro. Se la narrazione dell’Io è «un semplice tentativo di capire me stesso per arrivare a capire gli altri», i drammi di Blanco – già insigniti di alcuni tra i più prestigiosi premi del settore – mettono al centro le infinite possibilità di un’esistenza quotidiana e riconoscibile: quella di uno scrittore di successo, dal doppio passaporto e dalla sessualità fluida, in un travaso che tuttavia confonde gli snodi reali e le vicende accadute con la loro affabulazione più fantasiosa. Al lettore e allo spettatore è impedito sapientemente di distinguere fra verità e finzione, tra romanzo e documento, in un rifiuto netto di qualsiasi dogmatismo dello sguardo, e in una nuova versione della verosimiglianza manzoniana che racconta l’oggi attraverso lo sguardo di un unico individuo, sia esso rivolto alla realtà o proiettato verso l’immaginazione.

Chissà se S, drammaturgo trentanovenne, ha realmente proposto al Teatro San Martín di Buenos Aires un progetto che avrebbe coinvolto Martín, un giovanissimo parricida. Chissà se è stato proprio di giovedì che Federico ha partecipato al provino per interpretare l’assassino a teatro. Chissà se il corpo del padre di Martín è stato realmente appoggiato al frigorifero dell’abitazione per un tempo così lungo, e se questa idea abbia davvero impressionato S. con tale forza. Tebas Land, candidato al premio UBU 2019 come miglior testo straniero messo in scena da compagnie o artisti italiani (nello specifico Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi, per la versione diretta da Angelo Savelli e portata in scena da Ciro Masella e Samuele Picchi), costituisce l’exemplum di una scrittura che gioca scopertamente con i piani temporali, accostando il racconto del passato con la sua immediata resa scenica, e che nella mistificazione di una vicenda di colpa e possibile redenzione trova l’occasione per un’indagine sul mito di Edipo e sul senso stesso del fare teatro. Proprio in occasione del debutto nazionale dello spettacolo, Cue Press ha raccolto in volume tre testi di Blanco nella traduzione firmata da Savelli: oltre a Tebas LandL’ira di Narciso e quel Bramido de Düsseldorf candidato al premio UBU 2019 come miglior spettacolo straniero, presentato in Italia nella versione diretta da Blanco stesso. A Savelli dobbiamo una resa piana e accurata del dettato, esito collaterale di un pluriennale progetto di ricerca e scouting focalizzato sulla nuova drammaturgia contemporanea, in grado di trasformare progressivamente il palcoscenico di Rifredi nella casa, tra gli altri, di Eric-Emmanuel Schmitt, di Rémi De Vos, di Josep Maria Mirò: un luogo dove, direbbe Blanco, intraprendere una volta ancora quel «percorso che si snoda al di là di sé stessi per dirigersi verso un Altro».