The Global City: presentazione del libro e intervista a Simona Frigerio

Matteo Carriero​, «LibriNews».

Un estratto scelto dall’autore

Primera parada Città del Messico

19 ottobre 2012

Siamo in piazza delle Tre Culture, qui si celebra la fusione tra le tradizioni precolombiana e spagnola, che ha dato vita all’identità meticcia del Messico moderno. La piazza è circondata sui quattro lati dal complesso abitativo Nonoalco Tlatelolco, palazzi squadrati con un vago sapore da realismo socialista, costruiti a metà degli anni Sessanta del Novecento.
All’interno, si ergono alcune basi piramidali e rovine, che rappresentano la cultura azteca; a ridosso delle stesse, la cinquecentesca chiesa dedicata a Santiago Matamoros, edificata sui templi aztechi rasi al suolo, che ricorda la dominazione spagnola; mentre la Torre Tlatelolco,un grattacielo alto centodue metri che ospita l’omonimo Centro Cultural Universitario e domina l’intero quadrilatero stendendo la sua ombra sugli edifici anteriori, è il simbolo della modernità post-rivoluzionaria. Questa piazza, però, è conosciuta soprattutto per una tra le tante, troppe stragi latino-americane del secolo scorso: il massacro di Tlatelolco. Il 2 ottobre 1968 l’esercito messicano apriva il fuoco su circa diecimila studenti riuniti per una manifestazione anti-governativa.
Il vento del maggio francese spirava in Europa ma anche in Sudamerica e il Presidente Gustavo Díaz Ordaz, alla vigilia delle Olimpiadi, decise di mettere a tacere la protesta utilizzando l’esercito. Per sessantadue interminabili minuti i militari spararono sulla folla, costretta nella piazza dai carri armati e minacciata dall’alto dagli elicotteri. Le stime delle vittime variano da alcune decine a oltre trecento, più di mille i feriti, quasi duemila gli arrestati.

Come muoversi e ideare un’azione creativa in questi spazi soffocati dalla storia?
Instabili Vaganti arrivano in piazza delle Tre Culture per tenere un workshop presso l’UVA, l’Unidad de Vinculación Artística. Qui decidono che è il momento di dare il via al progetto Megalopolis, indagando la metropoli sudamericana attraverso le testimonianze delle persone che ci vivono. Al contrario di Stracci della Memoria, dove partivano da loro stessi per poi allargarsi alla condivisione, scelgono il percorso inverso, partendo dalle sensazioni e dai racconti di chi realmente abita la metropoli. La prima constatazione è che esistono due dimensioni (dato che la megalopoli è insieme l’individuo e la massa) e occorre percepire il rapporto tra le stesse. Ovviamente, se si studiano i processi di globalizzazione è facile capire come tutte le metropoli abbiano dinamiche comuni e funzionino in maniera simile, ma nel reale (quel reale fatto di carne e sangue, esperienze ed emozioni, così simile al teatro), quali possono essere le specificità di ciascun luogo, che riconducono alla memoria, alla tradizione, a quel rapporto tra individuo e spazio che lo circonda? Anna Dora e Nicola si rendono conto di attraversare tante città ma di vivere, in Italia, in un contesto bucolico e, di conseguenza, le loro sensazioni potrebbero essere diverse da quelle di coloro che trascorrono l’intera esistenza, ad esempio, a Città del Messico. Per Nicola, la propria è quasi una dimensione à la Solaris: sente di abitare su un altro pianeta, di vagare su un fazzoletto di prato, isolato dalla nebbia dal resto del mondo; e d’un tratto, di ritrovarsi sull’astronave del film, che lo rimette in connessione con i ricordi generati dai luoghi che ha attraversato. Sente che il loro nuovo progetto li costringerà a cercare delle insicurezze. Se con Stracci della Memoria hanno ormai raggiunto dei risultati, sviluppando un metodo di lavoro preciso, che prevede come impostare i workshop, e la creazione di nuove forme performative da trasmettere; il progetto Megalopolis ha come caratteristica precipua il caos (ma del resto, Mary Shelley non insegnava che: «Invention, it must be humbly admitted, does not consist in creating out of void, but out of chaos»?).

Dopo la prima giornata con gli allievi del workshop in una stanza della Torre Tlatelolco, ricoperta di specchi perché adibita solitamente alle lezioni di danza, spersonalizzata e spersonalizzante in quanto priva di legami con la città (che, ricordiamo, è il nucleo tematico della loro ricerca), Anna Dora e Nicola decidono di uscire, di abitare la piazza delle Tre Culture, e lì costruire la loro azione performativa. Ma uscire significa scoprirsi – in ogni senso. Muoversi, come singoli e come massa, negli stessi spazi del massacro del Sessantotto per fare emergere la storia – nei ricordi sia personali che collettivi. Riappropriarsi di questo luogo non è facile. La polizia (come spesso accade in America Latina) arriva immediatamente per capire cosa stia facendo il gruppo di persone non autorizzate. Una dimostrazione è, di per sé, un atto politico. E la scelta dei giovani presenti di agirla come tale non può che portare a una lettura altrettanto destabilizzante per chi rappresenti l’autorità. Per una volta la spiegazione che si tratta ‘solo’ di una performance tranquillizza i poliziotti, e Instabili Vaganti possono cominciare a lavorare seriamente.

La teoria, l’idea sono basilari in ogni forma artistica e, ovviamente, non fa eccezione un’azione performativa. Ma, praticamente, da dove comincia il proprio lavoro di regista Anna Dora? I testi, per lei, emergono solo dopo che si è creata un’azione fisica – stimolando la persona che sta vivendo quella determinata situazione in un dato momento. L’input della seconda giornata è uscire a fare training, lavorare con le strutture presenti in piazza. Gli allievi cominciano con una corsa ritmica sulla quale si inseriscono altri mezzi espressivi, come l’uso della voce: vogliono dare l’impressione di una massa che si muova all’unisono. Pian piano il gruppo, riappropriandosi di questo specifico spazio, dà ad Anna Dora e a Nicola l’impressione di trovarsi di fronte a una folla spaventata, che scappa. Le tensioni prendono forma, come se l’immagine storica si contestualizzasse. Ogni luogo, dalla chiesa al Palazzo Chihuahua, suscita nei partecipanti una risposta corporea differente. Di fronte a Santiago Matamoros si trova, per caso, un cumulo di pietre che sollecita la creazione di un ammasso di corpi – non perché la suggestione sia in tutti i partecipanti, allo stesso tempo e univocamente, quella di rievocare i cadaveri rimasti a terra dopo il massacro del Sessantotto, bensì perché la semplice geometria della struttura di fronte alla chiesa li stimola ad assecondarne la forma. Solo dopo che l’immagine è stata composta, il particolare contesto evoca la memoria.

Qui nasce spontanea una considerazione, ossia come ogni regista possa sviluppare modi differenti per sollecitare forme d’immedesimazione. Se il Metodo Stanislavskij indagava le esperienze personali dell’attore per stimolare emozioni simili a quelle che avrebbe dovuto provare il personaggio sulla scena e, attraverso questa psicotecnica, nascevano azioni credibili che creavano una continuità emotiva con il pubblico – al di là della quarta parete; Anna Dora parte da un’azione esperita in un particolare contesto e, attraverso la memoria del corpo, che è insieme antropologica (quando scostiamo il dito dalla fiamma prima di bruciarci) e culturale (ad esempio, ringraziando qualcuno a palmi congiunti e chinando il capo), rimette in circolo emozioni e ricordi personali e collettivi che, a loro volta, possono essere trasmessi allo spettatore – che è sempre l’altro da sé del performer.

Il quartiere Tlatelolco colpisce l’immaginazione anche per un altro motivo: il suo sapore insieme popolare e straniante. Gli spazi, asettici nelle loro geometrie astratte, quasi respingenti, suscitano nel gruppo emozioni diverse.
Durante l’azione performativa, i giovani si muovono esprimendo un anelito a riappropriarsi dello spazio come singoli e come massa, avvicinandosi e allontanandosi, interagendo tra di loro o con le superfici e gli arredi urbani disponili, stringendosi in un abbraccio o intralciandosi e impedendo agli altri la fuga. Imprimono ai corpi, e attraverso gli stessi, una sensazione di costrizione e di ricerca di libertà. L’affermazione dell’io si scontra con il bisogno del tutto. Ma a questo punto si va in pausa: si riprende fiato, ci si rilassa. Ed ecco che lo stesso spazio, estraneo e incombente fino a qualche minuto prima, è nuovamente in grado di accoglierli, come in un abbraccio – per il pranzo, per una chiacchierata in amicizia, per essere vissuto come il cortile di casa. Pian piano emergono affinità e contrasti, al di là di quel senso di assuefazione che le metropoli generano sempre nelle persone che le abitano, forse per preservarne l’esistenza.
Nasce la consapevolezza della dimensione di quartiere. Non si è più a Città del Messico, bensì al Tlatelolco, che li contiene come un’isola, e che riconoscono e nel quale si muovono come nelle stanze della propria abitazione: sanno in quali locali andare a mangiare o a bere qualcosa, dove incontrare l’amico, oppure fare una siesta in una giornata rovente. Il fazzoletto di prato della Valsamoggia, la dimensione umana di Anna Dora e Nicola, può esistere (e resistere) anche nel centro di una megalopoli affollata.

Il secondo step di lavoro è la ricerca verbale, la cui sollecitazione parte da una semplice domanda: «Cosa non vi piace?». I partecipanti rispondono con brevi negazioni simili a slogan, che entreranno nell’azione performativa finale:

«¡No guerra!», «¡No sangre!», «¡No violencia!».

Ma qui Anna Dora si scontra con una semplice legge della fisica: come far risuonare la voce all’aperto con forza sufficiente? E a livello psicologico, quale modo di parlare a voce alta, o di gridare, appartiene al gruppo che ha di fronte? Spiegare come usare il diaframma sarebbe complicato e porterebbe via molto tempo; occorre, al contrario, sollecitare la memoria collettiva contemporanea. In parole semplici, in questi pochi giorni Instabili Vaganti pongono un primo tassello sonoro dello spettacolo che debutterà a Montevideo e a Genova, sette anni dopo, quando recuperano l’uso della voce degli ambulanti nella metropolitana di Città del Messico. «¡Cuentos, cuentos!», strillano i venditori di racconti della tradizione locale. Ma a suggerire ai partecipanti di rifarsi a questa sollecitazione sonora sono Nicola e Anna Dora perché i giovani, immersi in tale realtà, assuefatti a quello che ormai è quasi solo un rumore di sottofondo (anche quando i venditori irrompono con una musica assordante in un vagone mezzo vuoto) non colgono immediatamente le affinità che potrebbero esserci tra quell’uso della voce e il proprio durante l’azione performativa. Eppure, quel modo di interpellare il passante appartiene loro perché fa parte della memoria collettiva della città. Nicola fisserà anche un’immagine, nella propria mente, per il futuro spettacolo – che ancora non è nemmeno allo stato embrionale. Ossia il volto di un uomo mezzo cieco che vende i dischi di Jim Morrison, e la cui figura, disfatta, si assocerà per sempre al testo di Roadhouse Blues, che risuonava nel vagone:

— Well, I woke up this morning,

and I got myself a beer.

The future’s uncertain and the end is always near.

A questo punto, in piazza delle Tre Culture, il lavoro diventa quello di inserire i testi dei partecipanti in questo sostrato sonoro condiviso.

Il workshop dura cinque giorni e la restituzione finale avviene all’aperto, di fronte ai passanti e al personale dell’UVA. Non c’è palco né pubblico, dato che l’idea di fondo è quella dell’incursione urbana. La performance si chiude con i partecipanti che salgono su un parallelepipedo kubrickiano, un monumento di cemento armato che campeggia in piazza, per gridare, di fronte all’edificio Chihuahua, da dove avevano sparato sugli studenti durante il massacro del Sessantotto:

— ¡Yo quiero ser un axolotl porque un axolotl se escribe con equis! 

Ma questo cosa significa? Sono i giovani allievi a spiegare ad Anna Dora e Nicola il valore di tali parole, scelte da una tra i partecipanti. L’axolotl è la salamandra messicana, venerata dalle civiltà precolombiane come un dio perché in grado di rigenerare arti e organi – dotata, quindi, di proprietà quasi magiche, e con un valore simbolico in quanto rappresenta la capacità di reagire alle avversità.
Il piccolo anfibio è legato alla storia del Paese anche dal nome, che si scrive con la ‘x’, proprio come México – la cui grafia utilizza tale lettera invece della ‘j’ rifacendosi all’antica lingua náhuatl. L’accostamento, quindi, tra l’animale e il Messico risulta quanto mai pregnante e legato alle radici identitarie e culturali del Paese. Questa frase è trasformata da Anna Dora in un inno, cantato dal coro con un meccanismo di botta e risposta che si adatta spazialmente alla piazza – accogliente, in quanto tale, eppure in grado di respingere a causa della disposizione dei suoi blocchi di cemento, dei casermoni e di un insieme di strutture architettonicamente imponenti tanto da trasmettere un senso di soffocamento, insieme reale e simbolico per la densità dei ricordi che suscitano.

Conclusa l’esperienza e rientrati a casa, sul loro fazzoletto di prato, Nicola e Anna Dora capiscono quali saranno i futuri step del progetto Megalopolis e quali gli obiettivi di ricerca e il metodo di lavoro che adotteranno: visitare metropoli differenti, dove tenere dei workshop con la gente che le abita.

Intervista all’autore

Come è nata l’idea di questo libro?

Dalla comune passione per il viaggio. Non la vacanza all-inclusive, bensì quell’andare in cerca di sé vagando per il mondo.

Quanto è stato difficile portarlo a termine?

La difficoltà, quando si inizia un libro, sta nell’inquadrare lo specifico dello stesso. Faccio un esempio per chiarire. Se dovessi scrivere il libro su una compagnia che si confronta, attraverso uno spettacolo, con un preciso fatto storico – passato o presente – il libro si muoverebbe su binari documentali, interviste, e avrebbe il sapore del reportage o del libro di storia. In questo caso, mi sono ispirata alla letteratura di viaggio.

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Sono una lettrice vorace. Direi che amo la letteratura dell’Ottocento, Proust e Dostoevskij su tutti. Ma adoro anche i modernisti inglesi e, quindi, Virginia Woolf. Una mia passione è il giallo, forse in quanto mi interesso di enigmi, e anche per questo leggo assiduamente Dürrenmatt.

Dove vivi e dove hai vissuto in passato?

Da quasi dieci anni sono diventata cittadina Toscana (anche se i toscani doc non si definirebbero mai tali dato che si identificano ognuno con la propria città). Per anni ho vissuto a Milano, metropoli che non sopportavo più e dalla quale sono letteralmente scappata: io sono figlia della Milano dei Centri sociali, dell’impegno civile e politico; la Milano della moda e della ‘movida’ mi rispecchia poco. Però Milano mi ha insegnato l’etica del lavoro. E poi ho vissuto a lungo in Gran Bretagna e da vent’anni giro il mondo in lungo e in largo, tanto che considero ormai l’Oriente la mia patria d’adozione, anche se Cuba mi ha rubato il cuore.

Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

In primis terminare il mio secondo romanzo. Ho già pubblicato due raccolte di racconti e ho scritto un romanzo giovanile che è rimasto, e rimarrà, nel cassetto. Per me scrivere è come respirare: impossibile non farlo

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