«Jon Fosse. Il Nobel che aspettavo da anni» (Cronache Letterarie)

Gianna Angelini, «Cronache Letterarie», 17 novembre 2023

Il nome di Jon Fosse come papabile candidato al prestigioso premio Nobel per la Letteratura, circolava ormai da qualche anno. Eppure la sua vittoria, soprattutto in Italia, ha sorpreso molti. Forse perché – tradotto finora da Cue Press e La Nave di Teseo – gran parte della sua produzione ci è ancora sconosciuta. Credo che la sua vittoria sia particolarmente significativa in questo momento storico. Personalmente, sono anni che l’aspettavo.

«Per la sua drammaturgia e la sua prosa innovative che danno voce all’indicibile».

Questo è quanto dichiara L’Accademia svedese, nel premiare Jon Fosse.
Una motivazione forte, ma di difficile comprensione per un Paese che lo ha tradotto così poco.
A rimediare ci hanno pensato i media, passando in rassegna la sua vasta produzione letteraria, dalla prosa alla poesia al teatro e raccontandoci che è considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei: il Beckett del XXI secolo.
Dal 2012, Fosse si è convertito al cattolicesimo da ateo convinto quale era, cosa che egli stesso dice che lo abbia salvato dall’alcolismo.
Particolarmente discussa sembra la sua ultima fatica, la Settologia (tradotta in italiano solo dal primo al quinto volume) che consiste in un’opera di oltre 1200 pagine prive di punti.
Ma ci aiutano queste informazioni a capire la portata della sua importanza letteraria? Secondo me no.

Il mio Fosse

Ho iniziato a seguire Fosse da qualche anno, sulla scia di una passione per laletteratura norvegese piuttosto forte.
Attratta dal suo stile, ho letto praticamente tutto ciò che, di suo, è stato tradotto in italiano.
Nella lettura, ho scoperto un legame molto personale con la sua poetica.
Il mio giudizio sul suo lavoro, inevitabilmente deriva da questo, ma se dovessi riassumere i motivi della sua unicità ed innovazione letteraria, quindi i motivi per cui, lo confesso, ho molto gioito per il suo Nobel, ne indicherei almeno tre.

1. Il culto della parola scritta

Jon Fosse è un autore che non ama molto parlare ed esporsi in prima persona.
Rilascia interviste con difficoltà e, quando lo fa, parla molto poco.
Da studente aveva il terrore di leggere ad alta voce, cosa che ha parzialmente condizionato il suo rendimento scolastico.
Jon Fosse per esprimersi scrive, e lo fa cimentandosi con generi differenti: dalla prosa alla poesia, alla saggistica, al teatro.
La lingua che usa è il neonorvegese, una lingua di nicchia anche per gli stessi norvegesi, perché la conosce non più del 15% della popolazione.
Una lingua molto musicale, ma complessa e di difficile traduzione.
Chi non ama scrivere e non ha mai provato la fatica della traduzione dei propri pensieri all’interno della gabbia delle parole, forse capirà con maggiore fatica il rapporto che Jon Fosse ha con la sua produzione. Perché, come possiamo leggere nei suoi Saggi gnostici, non c’è separazione tra ciò che lo porta a sperimentare il flusso della scrittura e la sua stessa vita, artistica e non solo.
Egli attribuisce alla scrittura anche l’avvento della sua conversione, per esempio.

Al di là dello stile

La forma della scrittura di Fosse è quella del flusso di coscienza quando scrive la prosa, e dell’essenzialità ai limiti dell’ermetismo quando si avvicina al teatro.
Due forme completamente diverse, prolissa e ripetitiva la prima, puntuale e ridotta ai minimi termini la seconda, ma che rappresentano, nella sua poetica, due facce della stessa medaglia.
Una medaglia che si chiama «soggetto» e che, se il paragone mi è concesso, traduce nell’unica forma possibile in letteratura, quello che al cinema chiamiamo «soggettiva»: lo sguardo dall’interno.
Fosse riesce a rendere vivo, attraverso un uso sapiente della retorica, il flusso dei pensieri di personaggi (quasi sempre senza nome) che hanno difficoltà a trovare un posto nel mondo, e usa un linguaggio asciutto e pungente quando quei personaggi deve farli parlare ad alta voce.
Mentre insegue i suoi pensieri fissandoli attraverso la lingua, egli li vede cambiare e registra lo stesso cambiamento in se stesso.
La prima volta che ho visto un’opera di Fosse a teatro, ho avuto uno shock emotivo simile a quello che mi colse a 16 anni con la visione di Finale di partita di Samuel Beckett (premio Nobel per la letteratura 1969).
Poche parole, ma così taglienti che desideri recuperarle per vedere che effetto fanno quando, anziché ascoltate, le leggi in prima persona.
Nonostante la mia reazione emotiva al primo impatto fu simile, i due autori sono sicuramente molto differenti.
Mentre Beckett ti scuote, spesso con violenza, Fosse ti insegue.
Si insinua nei meandri di ciò che non vorresti mai confessare a te stesso e poi ti lascia lì, solo a riflettere. Disorientandoti.

2. Il tormento delle persone in transizione

Diversamente da quelli tratteggiati da Beckett o Ionesco, i personaggi che descrive Fosse non si riconoscono in base alla loro appartenenza sociale.
Essi sono accomunati dalla ricerca di un posto nel mondo, che è del tutto trasversale.
Si tratta di soggetti che, letteralmente o metaforicamente – perché rifiutati, cacciati o perché semplicemente irrequieti – si tormentano alla ricerca di una collocazione che li accolga e li rappresenti.
Questo tormento, proprio di ciascuno che si trovi a vivere una transizione o un mutamento, viene esplorato così nel profondo che, facendoci trasportare dalla sua rappresentazione, finiamo col cadere in un vortice.
E nella caduta non possiamo che ammettere che nessuno, in fondo, ha davvero sempre il posto giusto nel mondo.
Quindi tutti, in fin dei conti, siamo o siamo stati uno dei suoi personaggi: l’Uomo o la Donna, il Giovane o la Bambina.
Nessuno può dirsi in ogni momento e avendo la certezza di rimanerlo, completamente risolto.
Mentre Beckett sfoggia una pungente, sebbene cinica, ironia, Fosse non ci fa mai ridere, nemmeno in modo amaro.
Egli ci sorprende alle spalle, ci bisbiglia all’orecchio e, quando proviamo a voltarci, col desiderio di guardare in volto chi ci sta seguendo con la speranza di poterlo interrogare per capire, ci lascia.
A tormentarci.
Proprio come i suoi personaggi.
Eppure questo tormento non ci fa stare male.
Esso è parte di un fermento interiore collettivo che, nella sorpresa di ciò che ci porterà, ci lascia immaginare il meglio per noi.
Qualcosa che non si può dire, ma che è racchiuso nell’emozione che proviamo ogni volta che siamo alla ricerca del bello e ci fa stare in estasi nella sospensione dell’attesa.
Come questo passo tratto da Melancholia che mi rapisce ogni volta che lo rileggo.

Mi manchi così tanto.
E proprio non lo capisco perché debba sentire così tanto la tua mancanza, da quando mi sveglio a quando mi addormento, tutto il tempo, la nostalgia sta lì semplicemente, è sempre lì, come il cielo, come la luce.
Tu sei come cielo e luce in me.
Mi manchi così tanto. […]
Perché tu sei in me.
Io vengo da te.
E tu sei in me. Tu sei in me. Senza di te io sono solo un movimento, senza di te sono solamente un movimento vuoto, una curva.
Una svolta verso di te.
Un movimento verso di te.
Verso di te, verso di te.
Da quando mi sveglio a quando mi corico, sempre sono un movimento verso di te. […]
Mi manchi.
Cammino per strada, ma non vedo nulla.
Io sono la mia mancanza di te.

3. Rendere l’oscurità luminosa

Leggere Fosse è una esperienza che non si può spiegare.
Non è per tutti, ma se sei una persona che abitualmente si mette in discussione, non accetta incondizionatamente la realtà e dubita in modo costruttivo, ritengo che Fosse ti possa veramente rapire. Perché sebbene possa sembrare un esploratore del buio, il suo buio è illuminante.
Leif Zern, nel suo Quel buio luminoso, secondo me lo spiega molto bene.
Il minimalismo di Fosse non è una questione di stile.
Il fatto che insistiamo nel considerarlo tale è più un segno delle nostre incertezze su come mettere in scena i suoi drammi che un segno di quello che vi si svolge.
È nel profondo della oscurità che la sua luce risplende: nel profondo della nostra insicurezza e della nostra incapacità di orientarci, non diversamente da quanto esprimono i personaggi in scena.
Come questo sia possibile attraverso la parola, è proprio il mistero di un talento che può essere considerato tra i più grandi dell’epoca contemporanea.
Un riconoscimento, a mio avviso, del tutto meritato e che trovo per rimanere in tema di luce, davvero illuminante.

Il senso di un Nobel

Il Nobel a Jon Fosse nel 2023 restituisce la necessità di una attenzione sempre più profonda al valore della parola con tutte le sue affascinanti e a volte inspiegabili sfumature.
Nell’epoca dell’esaltazione di ChatGpt che stiamo vivendo, mi sembra un messaggio cruciale.
Inoltre, il riconoscimento alla sua scrittura rende giustizia alle fragilità di chi spesso si sente nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La sua prosa è fluida, come i suoi personaggi anonimi, la sua poesia è aperta, la sua drammaturgia è priva di punti fermi.
Niente di più accogliente.
E se è vero che la sua ultima fatica, sette volumi privi di punti, può sembrare una impresa impossibile da affrontare per chi legge, essa rappresenta in realtà il punto più alto, secondo me (facendo ovviamente riferimento solo a ciò che è stato tradotto in italiano) del suo lavoro di scrittore.
Perché nell’esaltazione della transizione, noi riconosciamo tutta la sua vita.
Che procede in bilico fra diverse personalità spesso in conflitto fra di loro.
Nella Settologia, Fosse si scopre, e scoprendosi fa sentire tutti noi vicini e meno problematici di quello che pensiamo di essere.
Dando voce alla confusione della più profonda interiorità, Fosse ci trasforma da esseri incerti, in abitanti legittimi di ogni mondo possibile.
In conclusione, cosa dire?
Non fatevi spaventare dallo stile.
Prendete in mano uno dei suoi scritti e provate a viaggiare con lui.