Edgar che avrà cent’anni nel 2021
Emiliano Morreale, Mariapaola Pierini, «Cineforum», marzo 2021.
Tutte le stelle di un cinefago eccentrico
La macchina dei miti
Gli studi di Edgar Morin sul cinema, pur molto letti e citati, non hanno molto influenzato gli studi sul cinema, specie in Italia. Oggi, paradossalmente, sembrano meno bizzarri ed estranei di quanto dovessero apparire all’epoca della loro apparizione, e non a caso negli ultimi anni se ne sono avute numerose riedizioni. Il cinema e l’uomo immaginario, del 1956, e Le star, dell’anno successivo, rileggendoli, costituiscono una specie di dittico. In apparenza, il secondo sembra uno spin-off del primo; in realtà, sposta il discorso dall’antropologia alla sociologia strettamente intesa, dall’io al noi. Rileggendoli adesso, se il primo sembra riassumere mezzo secolo di pensieri sul cinema, l’altro si avventura in un ambito nuovo. E insieme, i due titoli finiscono col costruire anche un romanzo generazionale.
Figlio di immigrati ebrei di Salonicco, nato nel 1921 con un percorso accademico irregolare, Morin arriva alla cultura dalla militanza politica nella Resistenza, e il centro della sua attività culturale è proprio la ricerca di un nuovo spazio per l’engagement. Contemporaneamente, Morin è un ‘cinefago’ dall’età di dieci anni: un po’ più giovane di Bazin, un po’ più grande dei giovani turchi Truffaut e Godard, coetaneo di Rohmer, non fa distinzioni tra cinema popolare e d’autore. Quella che in un libro di memorie (La mia Parigi, i miei ricordi, 2013) chiama «la cultura popolare di Ménilmontant» (il quartiere in cui era cresciuto) è anzi la base da cui poi raggiungerà la cultura alta: dai romanzi di cappa e spada a Balzac, dal cinema popolare a quello d’essai, dalle canzoni alla ‘classica leggera’ a Beethoven. E questo si avverte nell’impostazione, ma ancor più nel tono, nella postura si direbbe, con cui lui guarda al cinema.
Le star e Il cinema o l’uomo immaginario dialogano con i libri che Morin scrive in quegli anni, ma anche con quelli che non scrive. Da un lato, lo studio su L’uomo e la morte, che gli fa scoprire «lo stupore che l’immaginario sia parte costitutiva della natura umana»; e ne Il cinema..., ricordando la genesi di quel meccanismo del doppio che fa il fascino dell’immagine filmica, affermerà, citando Max Jacob: «Si prendono i morti, si fanno camminare e questo è il cinema». Dall’altro, il tema che permea la sua vita all’epoca ma che lui non affronta direttamente, ossia il rapporto sempre più difficile col comunismo. Come ricorderà Morin stesso, «il 1951 segna una svolta nella mia vita. Sono integrato nel Cnrs, sono escluso dal Partito Comunista, e il mio libro L’uomo e la morte esce in libreria». Il suo progetto di ricerca sul cinema è da ‘tirocinante’, in un’istituzione piuttosto marginale ed eterodossa, e la scelta del cinema accentua e rivendica questa eterodossia. Il libro viene progettato consapevolmente come una sorta di ‘rifugio’, mentre intorno la situazione politica mette sempre più in crisi l’autore, tra i fatti d’Ungheria e l’aggravarsi della crisi in Algeria.
Il cinema... parte da un’idea dell’autonomia dell’immaginario come qualcosa di non secondario rispetto alla realtà sociale ed economica. Reale e immaginario nascono insieme: il cinema, dice Morin, è qualcosa di assente e prossimo, nasce dalla fascinazione e dalla paura del doppio. Morin racconta la storia del cinema come trasformazione del ‘cinematografo’ in ‘cinema’, dell’attrazione da baraccone in racconto, della magia in ragione. Perché il cinema possa comunicare, la meraviglia deve venir meno, inabissarsi, e l’arte della regia, scrive Morin, è la lotta contro questa atrofizzazione (maniera squisita, vien da dire, di formalizzare l’idea della politique des auteurs, la centralità della mise en scène, la dialettica tra autore e sistema hollywoodiano). La star è allora uno dei luoghi di conservazione della magia in un cinema secolarizzato (un altro luogo in cui la magia persiste, osserva Morin con fine gusto del paradosso, è il documentario). Se il cinema crea un uomo immaginario, che è «anzitutto un doppio, anzi un’assenza», le star, dentro il cinema sono il nostro doppio ulteriore, il doppio puro, perfetto, così lontane e così vicine, nostri doppi intimi e insieme irraggiungibili: «L’uomo da sempre proietta su delle immagini i suoi desideri e le sue paure», scriverà nel libro successivo. «Questo doppio è detentore di potenze magiche latenti; ogni doppio è un dio virtuale». Ma passando ad analizzare il fenomeno del divismo, esempio lampante di come il cinema fa persistere il mito nel moderno, lo studioso si troverà a dover cambiare in parte passo e metodo.
Le star ovvero il cuore del mondo
Ai tempi della sua prima uscita nel 1957 (il libro avrà poi due successive riedizioni), Le star mostra che era giunto il momento di «prendere sul serio» (così scrive lo stesso Morin) un fenomeno fino allora considerato futile, un’appendice frivola che non meritava serie considerazioni. Trattando seriamente delle star, e indagando la riconfigurazione della mitologia e della magia nella società contemporanea, Morin finisce per andare al di là dei suoi presupposti di partenza. I divi sono sì i miti della modernità – il libro è infarcito di raffronti tra la mitologia classica e cristiana e gli eroi e le eroine dello schermo – ma la suggestiva idea dell’Olimpo moderno e della sua graduale ‘profanizzazione’ è indagata attraverso un’analisi che intreccia la dimensione sociale e industriale, aprendo la strada a quelli che ora chiamiamo star studies. Se le star sono oggi al centro di pubblicazioni scientifiche e corsi universitari, se hanno piena legittimità come oggetti culturali, è in gran parte merito del pioneristico lavoro di Morin, di questo libro eccentrico e un po’ idiosincratico, dai toni pungenti, talvolta sarcastici, zeppo di folgoranti intuizioni. Morin non guarda da fuori, non demistifica snobisticamente quella pulsione moderna e arcaica al tempo stesso che è il culto delle star. È parte in causa, in quanto giovane e appassionato spettatore che, come molti altri, si è nutrito delle star come ‘idee-forza’, capaci di inserirsi e incorporarsi nella vita reale.
Per Morin, le star «vivono della nostra sostanza e noi viviamo della loro», sono «secrezioni ectoplasmatiche del nostro essere», ma sono anche perfetta espressione della logica implacabile del capitalismo moderno che le costruisce, le modella, le ritocca per renderle conformi, appetibili e consumabili. La star, in particolare quella hollywoodiana, è una merce totale perché «non c’è centimetro del suo corpo, fibra della sua anima, ricordo della sua vita che non possa essere messa sul mercato». E se la configurazione del divismo e della celebrità è mutata – e in tempi di social network e di streaming poco ha a che vedere con l’istituzione cinematografica e con i riti di cui si parla nelle Star – le intuizioni di Morin non sono relegate nel passato ma continuano a reagire con il presente. Innanzitutto per il metodo: per comprendere il funzionamento delle immagini divistiche (come poi le definirà Richard Dyer) non bastano i film, ci vogliono il contesto e soprattutto i documenti. Bisogna andare in cerca delle tracce che il divo ha lasciato, delle scie che ha generato, passando al vaglio riviste, immagini, pubblicità – materiali che infatti il libro richiama costantemente. Da questi indizi Morin ci mostra non solo le star nella loro dimensione anfibia – dentro e fuori dallo schermo –, ma indaga anche il rapporto di influenza reciproca tra il divo e i suoi personaggi, mettendo a fuoco la relazione tra pubblico e schermo. Ed è proprio da questa attenzione ai processi di identificazione e di proiezione, indagati anche attraverso i modi in cui i fan si rivolgono ai propri idoli, che Morin arriva a definire la ‘liturgia stellare’. Passando in rassegna la posta delle star e occupandosi dei rituali che riguardano le piccole o grandi comunità di ‘fedeli’, le riflessioni di Morin riguardo al carattere divino della star si illuminano grazie all’analisi dei comportamenti, troppo spesso stigmatizzati, attraverso cui il pubblico ama i propri idoli.
Pagine appassionate sulla religione del cinema, sul feticismo che porta i fedeli a collezionare immagini e reliquie, a trasformare le star in santi patroni capaci di proteggere e consolare, di dispensare consigli e raccomandazioni. «Dietro lo star system», scrive Morin, «non c’è solo la ‘stupidità’ dei fan, l’assenza di invenzioni dei cineasti, le manovre commerciali dei produttori. C’è il cuore del mondo. C’è l’amore, altra stupidaggine, altra profonda umanità». Se alcune pagine ci appaiono oggi meno convincenti – in particolare quelle in cui un po’ troppo perentoriamente si afferma la funzione puramente accessoria della recitazione – il cuore del libro pulsa ancora. E pulsano anche tutte le star – Valentino, Garbo, Cooper, Wayne, Chaplin, Crawford, Gabin, Bardot, Lollobrigida, Loren... – rievocate con fervore dalla memoria cinefila del suo autore, chiosate con l’intelligenza di chi sta dentro e fuori dal gioco, dalla voluttà intellettuale di chi parlando di divi riesce a parlare di sé e del mondo.
Oltre alla dimensione sociale, nel libro irrompe con forza quella storica. Le star ripercorre la genesi e le evoluzioni del divismo cinematografico dagli anni 10 ai 60: dalle immagini archetipiche degli eroi del cinema muto, le star-divinità, «sublimi ed eccentriche», che vivono «al di sopra dei comuni mortali», si arriva alla secolarizzazione e l’imborghesimento, a un’umanizzazione realista dell’Olimpo abitato da divi che «partecipano alla vita dei comuni mortali». Ma, tornando su queste pagine a qualche anno di distanza, per l’edizione del 1963, Morin aggiunge un tassello importante. La morte di Marilyn Monroe e, prima, quella di James Dean, gli appaiono come eventi che suggellano simbolicamente la sua riflessione. L’Occidente sta per essere scosso dalle contestazioni del ’68, il cinema cambia, Hollywood pure, e se le star continuano a esistere, la loro vita «non è più una soluzione ma una ricerca, non più soddisfazione ma sete». A questa sete e a questa ricerca Marilyn – «l’ultima star del passato ma la prima star senza star system» – non è stata capace di sopravvivere. La morte di colei che da povera e orfana era diventata l’oggetto di venerazione del mondo intero, ha colto impreparati tutti coloro, tra cui lo stesso Morin, che erano pronti ad amarla e adorarla. È il rintocco funebre, la fine dell’Olimpo che il suo libro ci aveva aiutato a vedere. E forse, retrospettivamente, Morin stesso pare accorgersi che, mentre guardava al cinema e alle star portando con sé l’entusiasmo del ragazzo cinefilo di Ménilmontant, in realtà scriveva su un crinale, fotografava la fine di un mondo e di un cinema, o almeno una loro irreversibile mutazione.