Riflessioni sull'essere attore. Un atto d'amore per il teatro
Diego Vincenti, «Il Giorno».
«Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora come un mistero. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o il profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito». Scriveva così Louis Jouvet nel 1943 da Medellín. Ennesima tappa di un giro sudamericano, intrapreso per sfuggire all’occupazione nazista. E proprio il concetto di mistero affiancato alla grammatica teatrale, è uno dei temi che torna con maggiore frequenza in Elogio del disordine, da poco pubblicato dalla Cue Press. Ormai prezioso il catalogo di questa piccola ma vivacissima casa editrice romagnola, diretta da Mattia Visani. Basti pensare alla recente pubblicazione del cult Il teatro postdrammatico di Lehmann o a Realismo globale di Milo Rau. Ma incuriosisce particolarmente questo volume antologico curato da Stefano De Matteis, dove vengono per la prima volta tradotti in italiano una lunga serie di annotazioni, pagine di diario, lettere di una delle più grandi figure del teatro d’inizio Novecento. Per altro molto caro qui a Milano dopo il fortunato Elvira di Toni Servillo al Piccolo (testo già in passato affrontato da Strehler). «Riflessioni sul comportamento dell’attore», recita il sottotitolo. E infatti Jouvet studia con sguardo inquieto la propria professione, mettendo al centro dell’indagine se stesso, in un processo ossessivo di quotidiana analisi del lavoro. Un atto d’amore per il teatro. Ma per chi legge anche la possibilità di riappacificarsi con un pensiero critico e teorico messo a dura prova dal periodo. La riflessione sulla pratica artistica si presta così ad essere una più vasta visione sull’uomo e il nostro essere animali sociali. Con quel viscerale bisogno di tornare presto a «riunirsi insieme in nome del sogno».