Il divismo. Merce di origine capitalista, forma economica utile a produrre affari, come qualsiasi prodotto commerciale

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».

Chi ha studiato storia del cinema, si è formato sui libri di Georges Sadoul, Pietro Bianchi, Guido Aristarco, Carlo Lodovico Ragghianti, Luigi Chiarini, Edgar Morin. Da una simile essenziale bibliografia, si intuisce come, allora, i film venissero analizzati alla stregua di un’opera d’arte. Ci sono stati altri che li hanno esaminati dal punto di vista sociologico, come Francesco Casetti, chi dal punto di vista del linguaggio, come Jean Mitry, chi dal punto di vista politico, come Roland Barthes e Jean-François Lyotard e chi dal punto di vista economico, come Christian Metz e Raymond Bellour.

Forse, a questi ultimi si è rapportato Paul McDonald nel suo libro Hollywood stardom, il commercio simbolico della fama nel cinema hollywoodiano, edito da Cue Press.

Il lettore si trova dinanzi a uno studio che, in forma saggistica, affronta il problema del divismo da intendere come merce e, pertanto, come consumo. A dire il vero, in un breve capitolo del libro di Morin, risulta evidente che il problema del divismo sia stato fabbricato volutamente dallo Star-sistem e concepito come una specifica istituzione del capitalismo.

Paul McDonald, prima di essere docente universitario, aveva lavorato nell’industria dei media, tanto da poter abbinare, nella sua indagine, teoria e pratica. La tesi del libro è volta a dimostrare come si sia affermato il commercio simbolico dello stardom, ovvero della celebrità, essendo, questa, uno degli strumenti utilizzati per produrre affari attraverso l’uso simbolico dei divi cinematografici, considerati vere e proprie ‘forme economiche’.

L’approccio dell’autore è di tipo concettuale piuttosto che storiografico e la sua analisi riguarda il ventennio che va dal 1990 al 2010. Gli argomenti trattati, nei vari capitoli, sono molteplici: il commercio simbolico dello stardom, l’utilizzo della star come marchio di un prodotto ben definito. Molto attuale è il tema dell’inflazione del talento, con la conseguente ricontrattualizzazione dei compensi, dato che, nel terzo millennio, la commercializzazione dei film non utilizza soltanto lo star-sistem, quanto l’uso della tecnologia e dei videogame applicati alla pubblicizzazione e alla distribuzione.

Il punto di partenza è alquanto noto: le star non nascono dal nulla, vengono create affinché il loro prestigio si possa trasformare in profitto, nel senso che, tanto più sei star quanto più incassi al botteghino. Per fare un riferimento al teatro italiano, al tempo degli spettacoli realizzati da Compagnie primarie, come la Proclemer. Albertazzi, La Compagnia dei Giovani, la Morelli-Stoppa, la Compagnia di Eduardo, di Alberto Lionello, alla fine dello spettacolo, gli attori non chiedevano come fosse andata, ma che incasso era stato fatto. Tra i più accaniti era proprio Lionello che voleva sapere, appena chiuso il sipario, l’incasso della serata perché equivaleva al suo valore d’attore. Piccole cose rispetto a quelle dell’industria cinematografica, soprattutto, durante l’epoca d’oro, quando i produttori impazzivano se l’incasso non li soddisfaceva, un’epoca ormai al tramonto, visto che le star scarseggiano e che sono cambiati i meccanismi di attrazione nella Hollywood post-studios, tanto che il brand principale non è più solo quello dei divi, benché l’appeal di alcuni di essi resista, essendo, comunque, un punto di riferimento per la costruzione, ben articolata, del ‘prodotto’ e del suo valore economico.

Andrea Minuz, curatore del volume, nella postfazione, ricorda una delle tante battute che circolavano a Hollywood, immaginando un dialogo tra un produttore e uno sceneggiatore: «Insomma cosa ne pensi dello script?», «Se c’è Harrison Ford, mi piace».

L ‘obiettivo dell’autore di questo libro è quello di far convivere la star, come immagine, con quella del commercio simbolico che se ne possa fare, riconoscendo il valore artistico che va, però, di pari passo con quello commerciale.

Il volume contiene anche una prefazione di Giacomo Manzoli.