Le Lettere di Strindberg. A nudo il cuore del genio.
Mattia Mantovani, «La Provincia».
August Strindberg ha regalato alla storia della letteratura opere teatrali quali ad esempio Signorina Giulia, Un sogno, Danza di morte e Sonata di spettri, che hanno riscritto e riposizionato i confini e gli ambiti dell’espressione teatrale, tracciando il solco nel quale si sono poi inserite tutte le più importanti avanguardie del Novecento, in particolare l’espressionismo e il ‘teatro della crudeltà’ di Artaud, che non a caso fu un suo appassionato ammiratore nonché regista di alcuni suoi testi scenici.
Le opere di Strindberg, che fu anche un prolifico narratore (basti ricordare lo straordinario romanzo La sala rossa, l’autobiografia in quattro volumi Il figlio della serva e i sulfurei Autodifesa di un folle e Inferno), hanno inoltre contribuito a mutare la percezione che l’essere umano ha di se stesso, molto prima che la psicanalisi e la cosiddetta letteratura della crisi, nei primi decenni del Novecento, mostrassero fino a che punto l’io umanistico fosse in ultima analisi una mera entità volatile e provvisoria.
Genio in chiaroscuro
Ma con Strindberg, come con tutti gli scrittori scoperta mente autobiografici, bisogna stare molto attenti, perché la vita riflessa nell’opera è in larga parte frutto di una reinvenzione che, secondo le parole dello stesso Strindberg, costruisce un mosaico con i tasselli forniti dalla vita e quindi «è opera di poesia e non menzogna», ma nemmeno una verità incondizionata. La verità vera di Strindberg – nella misura in cui di una vita umana possa esistere una verità vera – è invece contenuta nel suo vasto carteggio, del quale viene ora riproposta un’ampia scelta in versione italiana in un volume della collana I classici delle edizioni Cue Press (con l’aggiunta di un ricco apparato iconografico) a cura dello scandinavista Franco Perrelli.
E qui, infatti, in queste densissime pagine, che Strindberg si racconta in maniera diretta e senza reinvenzioni, dagli esordi al lungo esilio volontario in Svizzera, dall’esaltazione per Nietzsche alla contrastata amicizia con Edvard Munch, dagli anni di profonda crisi a Parigi fino al ritorno in Svezia e alla tarda utopia del Teatro Intimo.
Una verità dialettica
Nelle lettere di Strindberg ci sono tre matrimoni falliti, peripezie personali, fumisterie varie, perfino miserie, repentine accensioni e abissali disincanti, ma anche (o forse conseguentemente) una concezione assolutamente innovativa dei rapporti tra gli uomini e una lettura profondissima delle finzioni sociali.
Genio assoluto ma anche personaggio con molte ombre e poche luci (almeno secondo le ordinarie categorie di giudizio), Strindberg visse infatti una vita travagliata, sempre sul confine tra normalità e follia, ebbe tre mogli che trattò malissimo (e che a loro volta si servirono del suo sconfinato talento per scopi non propriamente nobilissimi), civettò con l’anarchismo e altri movimenti rivoluzionari e infine fu un inguaribile misogino. Questo, almeno, è quanto dice la vulgata, ma la verità che emerge dal carteggio è molto più sfumata, screziata e ricca di risvolti. E soprattutto è una verità dialettica, fondata sugli opposti.
Folle, certo, ma insieme lucidissimo (e cioè di una follia controllata e resa produttiva), razionalista e mistico, misogino e insieme adoratore dell’eterno femminino, quasi sempre eccessivo e sopra le righe ma incredibilmente profetico: Strindberg (che tra l’altro fu anche un discreto pittore) è stato davvero un genio universale, esattamente come il suo predecessore e modello Goethe, ma senza l’idea della continuità espressa nel ‘muori e diventa’ dello stesso Goethe. Ogni volta che è ‘morto’, infatti, Strindberg è ‘diventato’ un altro descrivendosi come dall’esterno, ed è proprio questa sorta di sofferto straniamento, che nel carteggio si profila con estrema chiarezza, a renderlo così vicino e attuale.