Macchine sceniche e testi immortali. Così, fra tragedia e commedia, il teatro ateniese divenne 'teatro classico'
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere», 20 giugno 2022
Tra il 1990 e il 2005, l’Editore Garzanti pubblicò una serie di volumi di Umberto Albini che determinarono una svolta nell’ambito della ricerca filologica, dato che l’interesse dello studioso non si limitò allo studio dei testi o della lingua o della società greca, essendosi indirizzato verso il mondo misterioso delle realizzazioni sceniche che erano frutto di una costruzione collettiva, di cui facevano parte non solo gli attori, allora non sempre professionisti, ma anche scenografi, musicisti, tecnici, organizzatori, e il Corego che, essendo un cittadino facoltoso, finanziava il coro, senza dimenticare l’Arconte, il vero responsabile degli spettacoli, che aveva il compito di ricercare finanziamenti presso i cittadini più ricchi, gli sponsor di allora.
Pur essendo stato un filologo classico, Albini era amico di teatranti come Aldo Trionfo, Lele Luzzati, Franco Parenti e Andrée Shammah, nel cui teatro tenne dei seminari sull’Orestea, inoltre era stato Sovrintendente dell’INDA dal 1995 al 1998. Insomma, aveva ben capito che anche la ricerca filologica avesse bisogno delle conoscenze pratiche, indispensabili per fare teatro o per tradurre dal greco.
L’Editore Cue Press ha appena pubblicato Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, un volume diviso in due parti, la prima riguarda l’Attore, il Coro, le Maschere, i Costumi, il Pubblico, le Macchine sceniche, la seconda affronta i testi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.
Per quanto riguarda l’Attore, Albini si intrattiene sul «tritagonista», una specie di promiscuo che, però, non risultava sempre adatto alle parti, tanto che non gli venivano risparmiate delle critiche, anche eccessive. Per fare un esempio, Demostene, in una delle sue Orazioni, a proposito di Eschine, diceva che si trattasse di un «attorucolo», inoltre riferisce delle reazioni del pubblico, durante la rappresentazione di Antigone, dove faceva talmente male la parte di Tiresia, che non solo lo fischiò, ma volle «cacciarlo via». Un motivo in più, per Albini, per analizzare il problema dei ruoli e, quindi, della vocalità, della tonalità, delle superflue leziosaggini, senza dimenticare le gelosie tra gli attori, come quella di Minnisco, molto caro a Eschilo, che insultava Callipide, chiamandolo «scimmia».
Sia ben chiaro che anche i pettegolezzi, per Albini, facevano parte degli spettacoli, le sue analisi sono sempre comprovate dai testi a cui fa riferimento, nulla è affidato al caso. Tutte le sue ricostruzioni, sia degli attori che del coro, di cui analizza i movimenti, la sincronia dei gesti, lo dimostrano, con rimandi precisi a tragedie e commedie, metodologia che utilizza quando riferisce sull’uso delle maschere, «elementi immobili», da distinguere dalla voce, «elemento mobile», benché le maschere creassero: «un’atmosfera alta», per la tragedia, e una bassa per la commedia.
Certamente il capitolo più interessante è quello che riguarda le macchine teatrali e l’attrezzeria, a dimostrazione di come il teatro greco, pur essendo povero di scenografie, utilizzasse dei marchingegni che rendevano dinamica l’azione teatrale, a cominciare dell’«enciclema» che, col suo movimento, essendo una specie di girevole o di carrello, faceva vedere ciò che avveniva all’interno di una reggia o di una abitazione. Come oggi il teatro va in cerca di effetti spettacolari, vedi l’Orestea di Livermore, anche, alle sue origini, il teatro classico non disdegnava le apparizioni degli dei, grazie a delle macchine, specie di gru, che li posizionavano in alto, e sembra che, per l’occasione, avessero inventato dei cavalli alati. Molto usato era il «theologeion», una specie di pedana rialzata che veniva utilizzata per l’arrivo degli eroi.
A dire il vero, Aristotele, nella Poetica, sosteneva di non amare le invenzioni artificiose a cui si ricorre quando non si hanno idee critiche, necessarie per una analisi profonda dei testi, egli, infatti, sosteneva che il vero dramma non avesse bisogno né di scenografie, né di congegni tecnici, come ha dimostrato Carsen nel suo Edipo, tutto costruito sul potere della parola.
Per quanto riguarda le attrezzerie, sulla scena antica, abbondavano i bauli, le statue, funzionali alla vicenda rappresentata ed ancora simulacri, archi, grandi scudi, ghirlande, ricche bigiotterie, collane, cinture dorate e, in particolare, oggetti sacri per agganciare il presente col mistero religioso.
Nella seconda parte, Albini si intrattiene sui testi degli autori citati, ne ricorda le origini, generalmente legate al patrimonio mitico e leggendario, con tutte le sue varianti e con i significati «secondi», con i loro riscontri etici, così come ricorda che, a base delle loro storie, ci fossero le due saghe principali, quella degli Atridi e quella dei Labdacidi, senza dimenticare le diverse avventure che coinvolgevano personaggi come Eracle, Aiace o Filottete. Insomma, una lettura che arricchisce le conoscenze di chi ama il Teatro Antico.