Il Neorealismo è la lingua nazionale del nostro cinema
Paolo Lughi, «Il Piccolo».
«Il Neorealismo è l’italiano del cinema, la lingua nazionale che forse non sappiamo più parlare, perché ormai la koinè europea o planetaria è più utile o obbligata. Ma è l’unica che si possa ancora studiare a scuola, l’unica che ci consenta di fare bella figura in società e che ci dia un’identità all’estero». Così scriveva Alberto Farassino nel 1989, nel saggio introduttivo al volume da lui curato Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, che all’epoca uscì come catalogo del Festival Cinema Giovani di Torino, a fianco di un’ampia retrospettiva.
Tutti a scuola si intitolava quell’attualissimo saggio, «poiché il Neorealismo sembra una materia di scuola – scriveva Farassino – un sapere istituzionale che solo una scuola attardata come la nostra può non contemplare nelle discipline di insegnamento». A distanza di quasi trent’anni, quel fondamentale libro-catalogo con le voci, tra gli altri, di Michael Cimino, Werner Herzog, Andrzej Wajda, Giorgio Strehler, è stato appena rieditato (Cue Press, pag. 303, euro 24,99) con una nuova prefazione di Tatti Sanguineti. La presentazione è avvenuta al recente Festival di Bellaria, che è stato dedicato proprio a Farassino, a testimonianza di quanto restino vive le idee e la lezione di questo studioso scomparso nel pieno della maturità nel 2003, docente a Trieste per vent’anni e sempre più considerato uno dei più autorevoli critici italiani del dopoguerra.
Come osserva Gianni Rondolino nella premessa a quel volume, Farassino aveva la capacità di analizzare il cinema «con l’occhio rivolto contemporaneamente ai grandi film e a quelli minori, ai registi prestigiosi e ai mestieranti, alle questioni tecniche e a quelle produttive». Del Neorealismo, per esempio, Farassino fece emergere l’aspetto regionalistico fino ad allora trascurato, con film girati lontano da Roma e anche dalle nostre parti come Cuori senza frontiere, La città dolente e Donne senza nome. Ieri come oggi, sia l’uscita, sia la riedizione del libro risultano utilissime per cogliere la complessità, la continuità e l’attualità del nostro movimento cinematografico più importante e famoso. Ma nel 1989, alla fine di un decennio in cui il cinema italiano aveva visto il tramonto dei grandi autori, e che era stato dominato dai nuovi comici e da generi di ogni tipo, il Neorealismo sembrava un argomento «un poco velleitario, forse inutile, fuori moda», come osservava sempre Rondolino.
Farassino invece ribadiva quanto esso non appartenesse solo agli anni Quaranta, ma fosse «un fenomeno per così dire eterno, una costante ricorrente dell’espressività cinematografica italiana». È la teoria del ‘fiume carsico’, la vocazione realistica del nostro cinema che dopo gli anni del muto riemerge prepotente nel dopoguerra ed è destinata a riemergere ancora, come nei primi anni Sessanta e come accadde alla fine degli anni Ottanta con film di svolta quali Mery per sempre di Marco Risi o Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.
E come aveva previsto Farassino, il ‘fiume carsico’ del Neorealismo riemerge ancora oggi. L’occasione può essere per esempio il quarantennale della morte di Roberto Rossellini, il regista del film capostipite, Roma città aperta, girato nell’estate del 1945 tra le macerie. Così vengono ora ripubblicate anche le memorie di Rossellini in Il mio dopoguerra, a cura di Goffredo Fofi (Edizioni dell’Asino, pag. 67, euro 8). E al padre del Neorealismo saranno dedicati due incontri domani e sabato, rispettivamente al Festival di Pesaro e al Cinema Ritrovato di Bologna.
Ma soprattutto, nelle sale italiane e nei festival internazionali, proprio nell’attuale stagione orfana degli incassi di Checco Zalone, troviamo un pugno di registi ostinati che resistono al disimpegno e descrivono gli umili e le periferie, personaggi dolenti e ambienti degradati. Che «lavano i panni sporchi in casa», come imputava al Neorealismo il giovane sottosegretario Giulio Andreotti nel 1948. Ecco allora, appena applauditi a Cannes, Fortunata di Sergio Castellitto, Cuori puri di Roberto De Paolis e L’intrusa di Leonardo Di Costanzo. Il primo racconta di una parrucchiera (Jasmine Trinca) della periferia romana e del suo coraggio, gli altri scavano in storie aspre e relazioni umane brucianti. In precedenza Daniele Vicari ci aveva mostrato, in Sole cuore amore, la barista Eli (Isabella Ragonese) con marito disoccupato e tre figli, che attraversa Roma facendo enormi sacrifici. Dice di questa ragazza lo stesso Vicari: «Eli è un personaggio neorealista».