Il Neorealismo secondo Alberto Farassino
Stefania Parigi , «Fata Morgana».
Il trentacinquesimo Bellaria Film Festival ha ricordato, nel maggio 2017, Alberto Farassino, promuovendo la ripubblicazione di quel prezioso libro-catalogo che nel 1989 accompagnò la retrospettiva Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, curata da Farassino con la collaborazione di Sara Cortellazzo per il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino.
Nella copertina dell’edizione originale, in bianco e nero, figura il dettaglio del volto di Anna Magnani, interprete di Il bandito (1946) di Alberto Lattuada, con una sigaretta in bocca. Un vivace tocco di rosso sul fotogramma, in corrispondenza dell’estremità accesa della sigaretta, attira lo sguardo e rende ancora più straniante una faccia già quasi irriconoscibile: quella dell’attrice senza le borse sotto gli occhi leggermente abbassati, con lunghe ciglia finte. Nel film di Lattuada la 'diva' neorealista gioca una parte molto lontana dall’icona della popolana che l’ha resa celebre un anno prima con Roma città aperta.
La scelta di quell’immagine truccata è già un segno dello sguardo innovativo e microscopico che Farassino intende 'gettare' sul Neorealismo, cercando di esplorare, al di là dei monumenti consacrati, le figure, le opere e gli spazi rimasti offuscati o controversi nelle varie visioni ufficiali che si sono succedute negli anni.
Ora sulla copertina della riedizione di Cue Press figura sempre la Magnani, ma in un’inquadratura di Roma città aperta, quando lancia un’occhiata di traverso al militare tedesco, poco prima della sua corsa dietro il camion che le porta via il promesso sposo. Corsa divenuta l’emblema più accreditato del Neorealismo: quasi un’immagine da francobollo, una sorta di 'santino' del cinema del dopoguerra.
Non voglio togliere alcun merito a questa riedizione che – per problemi finanziari, forse, o per pigrizia – ha steso, letteralmente, anche un velo di cataratta sull’atlante iconografico composto da Michele Mancini, il quale chiude i discorsi del libro-catalogo con una serie di fotogrammi rappresentativi delle varie dimensioni della vita quotidiana e dello spazio familiare e sociale durante il Neorealismo, mostrandoci mense e cibi, insegne sulle strade, graffiti sui muri, macerie e ricostruzioni, interni delle case, abiti, oggetti e vizi (come appunto la sigaretta), valigie e mezzi di trasporto, ecc.
Proponendo un mutamento di coordinate negli studi sul Neorealismo, Farassino lavora principalmente proprio su queste iconografie e topografie della cultura del Dopoguerra, mettendo in luce una molteplice serie di materiali inesplorati o poco conosciuti che comprendono immagini e discorsi, film ed echi della stampa popolare d’epoca. La retrospettiva torinese del 1989 pone accanto ai cosiddetti capolavori unanimemente riconosciuti della triade Rossellini, De Sica, Visconti e ai film consacrati di De Santis, Lattuada, Germi, Comencini e Zampa, una lunga lista di titoli in cui i segni del Neorealismo si depositano in impasti ibridi, dentro le vecchie dinamiche dei generi ereditati dall’epoca pre-bellica.
Ma cosa sono esattamente questi 'segni' del Neorealismo? Farassino li definisce tratti testuali, ovvero «strutture, isotopie e dinamiche che riflettono […] i fenomeni e i comportamenti più caratterizzanti del periodo». Tali tratti si trovano disseminati in una molteplicità di film del tutto dissimili e riguardano temi come la guerra, la resistenza, la vita individuale e sociale del dopoguerra, il lavoro, i problemi sociali, la corruzione, la criminalità, le condizioni dell’infanzia, la politica e lo spettacolo.
Il fulcro concettuale intorno a cui ruota l’analisi di Farassino è l’abbandono del vecchio paradigma storicista che ha contraddistinto i discorsi sul Neorealismo almeno fino alla mostra pesarese del 1974 in cui si tenta una prima revisione della mitica stagione del dopoguerra attraverso un coro di voci vecchie e nuove. Fra queste ultime compare anche quella del giovane Farassino che assieme agli amici e sodali del gruppo milanese Cinegramma (Francesco Casetti, Aldo Grasso e Tatti Sanguineti) propone, attraverso gli strumenti dello Strutturalismo, un nuovo modo di affrontare il rapporto tra il Neorealismo e il cinema prebellico. La conclusione a cui giunge il gruppo è un’idea di Neorealismo fondato sulla eterogeneità (a livello ideologico, produttivo, politico, tecnico, espressivo e critico), che comporta le contaminazioni tra i generi e i testi, l’abbandono del mito del purismo e del capolavoro, l’apertura moderna alle ricerche intermediali.
Una eco della ricerca collettiva di Cinegramma rimane, quindici anni dopo, nel libro-catalogo di Torino, a cui partecipano Aldo Grasso e Tatti Sanguineti, il quale firma anche la prefazione e la post-fazione dell’attuale riedizione, rievocando «la famigerata intervista» a Giulio Andreotti nell’estate del 1989, da cui partirà il suo lungo lavoro sull’onorevole democristiano, che si concretizzerà molti anni più tardi in due film di montaggio a lui dedicati.
Tra i quattro del gruppo, comunque, soltanto Farassino continuerà le ricerche sul Neorealismo, spostando sempre di più lo sguardo dai discorsi teorici alle analisi dei testi e delle condizioni materiali, culturali e sociali in cui prendono corpo. Nel libro-catalogo di Torino il suo saggio ha un titolo emblematico: Storia e geografia del Neorealismo. Attraverso la parola geografia egli identifica, in linea con le tendenze della storiografia francese delle Annales, una dimensione spaziale e materiale da contrapporre alle logiche temporali ed esclusive della visione storicista, che traccia un percorso lineare del Neorealismo, fissando un periodo di maturazione dell’‘evento’ accanto a un passato di anticipazioni e a un futuro di strascichi e riprese. Visto dalla prospettiva geografica, invece, il Neorealismo si configura come una sorta di atmosfera che circonda e si insinua, secondo differenti combinazioni, nei testi, nei discorsi, nei comportamenti, nell’immaginario collettivo di un’epoca.
È questa la ragione per cui Farassino contrappone al Neorealismo stretto e lungo della visione storicista (limitato a pochi capolavori e disteso lungo tutta la storia del cinema italiano) un Neorealismo corto e largo, che corrisponde al periodo 1945-1949. In questi anni, infatti, a suo giudizio, il Neorealismo si configura come «un affare di vita quotidiana» che permea i media e, insieme, l’esperienza individuale e sociale. Riprendendo la metafora scolastica del titolo del suo saggio (già utilizzata in campo letterario da un noto studio di Carlo Dionisotti, risalente alla seconda metà degli anni Sessanta) Farassino identifica il Neorealismo con una sorta di lingua nazionale: l’italiano del nostro cinema, attraverso cui passano i problemi identitari e la nuova cartografia del paese appena uscito dalla guerra.
Al privilegiamento dell’ottica spaziale su quella temporale e della sincronia sulla diacronia storicistica corrisponde l’adozione di un criterio quantitativo anziché qualitativo nella considerazione dei film, che rigetta l’idea di una mitica e mai raggiunta purezza neorealista, con il connesso paradigma dell’imprescindibile autorialità. Farassino unisce così le poche ‘opere neorealiste’, in linea con i principi di un ‘movimento’ spontaneo, che ancora non sono stati formalizzati dalla teoria, ai numerosissimi ‘film del Neorealismo’, in cui si sedimentano anche se in modo episodico i ‘tratti testuali’ neorealisti. Il panorama che ne deriva è quello di una eterogeneità che il Neorealismo tiene insieme con il marchio di un ‘prodotto d’epoca’, ‘qualcosa di analogo a uno stile di oggetti d’antiquariato’ che si dissemina su testi e discorsi fortemente diversi, finendo per ‘riguardare la vita di tutti’, nel suo continuo passaggio dai film alla realtà e dalla realtà ai film.
Questo circuito di rifrangenze e di corrispondenze si interrompe, secondo Farassino, intorno al 1948-1949, quando non a caso la parola Neorealismo entra in circolazione, cominciano le definizioni e le teorie del fenomeno, mutano gli assetti governativi, legislativi e industriali, iniziano a cambiare le condizioni di vita in Italia.
Attraverso una significativa analogia con il periodo preso in esame, Farassino decide, nel suo libro-catalogo, di rigettare le riletture teoriche, di abbattere la mitologia degli autori, di ricercare apporti che sfuggano all’istituzionalità del linguaggio critico, di dare spazio alle fonti più popolari e sconosciute. Il libro ricrea così, in linea con la visione ‘non aristocratica’ del Neorealismo che professa, uno spazio di esercitazione che non esclude la leggerezza, la provocazione, il gioco. Di qui nasce il piacere dei testi e delle fonti d’epoca, ma anche delle testimonianze di cineasti e non cineasti, italiani e stranieri, che aprono il volume e occupano infine la cornice conclusiva dedicata al Racconto dei nonni (De Santis, Lattuada, Lizzani, Mida e Gelosi della Lux Film). In mezzo a queste memorie e alle operazioni dei saggisti, che si muovono come immaginari cronisti immersi nel corpo e nella materia viva del passato, resta il sapore di tante microstorie ancora poco conosciute e in larga parte ancora da esplorare. Il discorso che Farassino formula nel 1989 rimane valido ancora oggi: tanti film, nomi, immagini, racconti attendono ancora di essere riportati alla luce e alla visibilità. Insomma, ci sono ancora spazi aperti nella lettura di un fenomeno su cui si è spesso ‘straparlato’, che costituisce un mythos e, insieme, un vulnus della nostra storia, non soltanto cinematografica.