Parole che disvelano la verità: Barabba di Antonio Tarantino e il dialogo sulle Sette parole di Cristo
Nicola Arrigoni, «La Provincia di Cremona».
È ancora l’interrogativo «Quem qaeritis?» che frulla nella testa. È il cercare, il chi o il cosa è un puro accidente. E la ricerca è nella parola che dischiude mondi che – non solo in teatro – dice e fa, allude e agisce. Cosa si va cercando, dove il nostro errare ci conduce? Cosa andiamo cercando? Forse la parola che ci sveli l’essere delle cose, laddove la parola verità è disvelamento. Per questo interrogare la parola agita del teatro è offrirsi la possibilità di un errare, ovvero di un percorrere lande incognite in cerca di un nuovo inizio, di una scena rinnovata e inattesa, di una landa desolata in cui entri una delle Tre sorelle e improvvisamente conti i posti a sedere… Stupore rinnovato nelle Tre sorelle di Anton Čechov di Massimo Castri che si apre a Thomas Eliot e Samuel Beckett.
E questo perché la parola poetica è demiurgica, fa mondo. «L’arte non è imitazione nel senso di riproduzione di un mondo, per altro già dato e aperto, ma è apertura di un mondo, così il linguaggio poetico non è un segno che rinvia a qualcosa che è già dato, ma è il luogo in cui l’essere di dà, si eventua (…) La parola poetica, come l’opera d’arte, è un cominciamento assoluto, è l’aprirsi di un mondo, in cui qualcosa di assolutamente nuovo viene all’essere». Umberto Galimberti nel suo saggio Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente (Feltrinelli, pagine 320, 30 Euro) dà seguito al Quem quaeritis?
Ciò ci permette di introdurre due altri testi, due altri spunti, pre-testi sulla parola poetica che trasforma. Il primo è il monologo Barabba di Antonio Tarantino, a cura di Sandra De Falco, pubblicato da CuePress e l’altro è Le sette parole di Cristodialogo di Riccardo Muti con Massimo Cacciari, pubblicato da Il Mulino. Due volumetti accomunati dal medesimo contesto pasquale, un caso, ma entrambi – non è un caso – spunto per interrogarsi sulla forza della parola poetica come chiave di disvelamento dell’autenticità dell’essere.
«Il mondo, il nostro mondo, è forse quello che le parole del profeta bandito Barabba ci vengono descrivendo in questo estremo sproloquio invettiva?» si chiede Antonio Tarantino, drammaturgo degli ultimi, autore della marginalità, ai margini egli stesso. Tarantino – pubblicato dalla UbuLibri di Franco Quadri - è poeta della sacralità che sta ai margini, che è tale perché concentrato di vita separata, sotterranea, nascosta. E allora Barabba – letteralmente figlio del padre – è nella sua cella, è testimone della condanna, dell’insensato martirio di Gesù Figlio del Padre. Non è un caso che Barabba si chieda: «Il mio nome?!/quale nome?!/ gesubarabba?!/ io o lui?/ anche lui è un barabba!/ Un gesù/ tale e quale a me?!/ Ma allora io chi sono?!/ Io sono lui o lui sono me?!/». Antonio Tarantino ci presenta una Barabba incarcerato, in attesa d’essere liberato, graziato e testimone del martirio di quell’altro Barabba Gesù. E guarda caso in questo testimoniare rabbioso e incredulo per la ricerca di quella verità: «eccola là crocifissa, la verità, inchiodata alla croce come la farfalla dell’entomologo è fissata al suo album con tre spilli: ecco a voi la verità! Ma quale verità? La verità di sistema, quella che due più due fa quattro ma solo per l’aritmetica entro i confini dell’aritmetica». E allora viene in mente, improvvisamente come detrito della memoria, il due più due non sempre fa quattro del protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevski. E come non trovare il sottosuolo dei personaggi dell’autore dei Fratelli Karamazov nella consapevolezza del Barabba di Antonio Tarantino: «Ma è la grandezza della verità: di non vedere un palmo oltre il proprio naso: di essere derisa e insultata e rispondere ad ognuno di questi affronti con benedizioni: di morire in croce come un rivoluzionario violento ed eroico e impartire la benedizione urbis et orbis. Non è forse questo il comportamento di un pazzo? Allora la Verità è Follia!». Eppure nella rabbia e nella pochezza di questo Barabba pusillanime e gretto c’è alla fine la consapevolezza di quel sacrificio che libera, di quel sacer facere, fare il sacro che disvela un mondo altro, altro forse perché sospeso nella separatezza della parola che salva. E così il Barabba di Tarantino afferma: «Ma se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti».
E allora nel nostro errare alla ricerca del disvelamento dell'essere la Crocifissione di Masaccio con la Maddalena che ruba la scena a Cristo e Le sette parole di Cristo nella sonata di Haydn sono il terreno del dialogo fra il filosofo Massimo Cacciari e il direttore Riccardo Muti in un volume tanto intenso quanto di facile e appassionante lettura. Si tratta di una guida all’ascolto della sonata di Haydn, ma soprattutto una riflessione dialettica sulla potenza evocativa della musica e della parola/linguaggio. In questo senso appare illuminante – per la riflessione partita dal Quem quaeritis? – quanto scrive Cacciari riferendosi a Vico: «l’uomo non nasce animale parlante; acquisisce dopo millenarie e tragiche esperienze la facultas loquendi. Prima vi è grido, suono. Poi il suono assume ritmo, misura e giunge a farsi canto. E alla fine ecco il logos. Ma la sintassi di quest’ultimo non dimentica affatto la potenza dell’origine». Il filosofo si chiede se in questo non sia l’universalità della musica, com/presa al di là delle conoscenze delle sue regole. La lingua, la parola che si fa musica, la parola che in sé porta l’eredità dell’origine, il suono, la parola che risuona, la parola che evoca. Massimo ingenium e massimo studium si coniugano nella parola di Dante, nella sua poesia che fa mondo ed è mondo. Il dialogo di Muti e Cacciari è un viaggio non solo alla scoperta della sonata di Haydn che si lega alle parole del Cristo morente sulla croce, ma è soprattutto un vademecum alla scoperta del segreto nascosto e disvelante della musica/linguaggio in cui «si combinano paradossalmente il massimo di ingenium, ciò che non è generato o prodotto da studium, con il massimo di studium, ovvero ciò che hai chiamato rapimento con la ricerca della forma più astratta o autonoma rispetto all’esigenza di comunicare significati definiti, cui la lingua naturale sembra essere al servizio (non lo è neanche nella sua essenza, ma così ci appare)», afferma Massimo Cacciari. Che si tratti del Barabba di Antonio Tarantino, oppure del dialogo di Muti e Cacciari sulla sonata delle Sette parole di Cristo di Haydn in relazione con la Crocifissione di Masaccio, la parola poetica, il linguaggio poetico e i poeti «dicono quella totale assenza di protezione che l’uomo tenta invano di mascherare con il calcolo e con il progetto, con la previsione e con l’anticipazione, quando non osa sporgere nell’Aperto e arrischiare sensi imprevisti», scrive Umberto Galimberti.
La parola che crea, la poesia, la poiesis incarnata è parola che si concede all’Aperto, che ci impone il rischio dell’imprevisto… per questo è vertigine, è abisso, dolcissimo abisso.