Performance: rito o teatro? Ma diventa arte, se dalla vita passa al sublime della scena. Vedasi anche Grotowskij
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Dopo Introduzione ai Performance Studies, di Richard Schechner, con prefazione di Marco De Marinis, a cura di Dario Tomasello, Cue Press pubblica un volume dello stesso Tomasello e di Piermario Vescovo: La performance controversa. Tra vocazione rituale e vocazione teatrale, nel quale, i due autori, il primo docente di Storia della Performance, all’Università di Messina, il secondo docente di Storia del Teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ritornano sul ‘luogo del delitto’, per cercare di chiarire il perché la categoria della Performance abbia un carattere controverso e, a volte, contraddittorio, subendo, per la sua pervasività, persino le angherie di detrattori. I quali preferiscono il teatro come testo e rappresentazione. Lo ritengono, infatti, un cardine esclusivo dell’esercizio della professione d’attore che ha seguito una scuola e che gli permette di essere considerato un professionista, al contrario del performer, che segue solo i suoi istinti e che si affida alle proprie capacità inventive che, spesso, si esauriscono nel momento in cui conclude la propria performance.
Perché leggere questo libro è importante?
Proprio per non incorrere in certe banalizzazioni o, addirittura, nel rifiuto di una categoria complessa, oltre che multidisciplinare.
Il performer è colui che viene colto nell’atto in cui compie o esegue una azione che può accadere in contesti diversi, dentro o fuori dal teatro, offrendo, in quell’occasione, una prestazione straordinaria. Ecco la parola magica che permette a tutti coloro che la compiono di essere chiamati performer, che possono venire, a loro volta, da professioni diverse; si va dal politico, al ginnasta, al calciatore, all’erotomane e, persino, al gestore dell’alta finanza, proprio perché ciascuno può vantarsi delle proprie prestazioni.
Ciò vorrebbe dire che esista un abuso del termine e che lo si utilizzi in maniera controversa. I due autori, pertanto, si sono assunti il compito di eliminare il paradosso, ricercandone le origini terminologiche e gli usi che sono stati fatti durante i secoli, seguendo, però, come indagine, il lessico legato alla scrittura drammatica e distinguendo tra Performance Art e Performing arts, appartenendo, la prima, all’arte visuale, alquanto simile all’‘Action painting’, con la sua occasionalità, causalità e improvvisità, che può estendersi al teatro, la seconda da intendere come arte dello spettacolo che contempla la teatralizzazione dell’atto stesso. Vescovo è convinto che ‘Performance’ e ‘Performativo’ abbiano finito per coprire un campo molto esteso, addirittura senza confini, generando quegli equivoci che andrebbero ricercati in Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione) e nello stesso Schechner.
Diventa, allora, necessario distinguere tra la Performance che appartiene alla vita, alla socialità, da quella che appartiene al teatro, fino a coinvolgere lo stesso Grotowskij, per il quale bisognava sostituire lo spettacolare col rituale e l’attore con l’attante.
Dario Tomasello ritiene che esistano categorie, nelle quali, la Performance possa trovare un suo habitat e che fuori da queste categorie non sia catalogabile, chiedendosi, nel frattempo, quando si possa parlare di vera arte. La risposta è molto semplice: quando si accede a una dimensione sublime che coincida col sublime della scena, la stessa che è possibile trovare in Grotowskij, Barba, Carmelo Bene, De Berardinis e, persino, in Eduardo. Come studioso, Tomasello parte da Schechner, evita Lehmann che, nel suo Postdrammatico evita di parlare di Performance, per arrivare all’‘Intra-teatralità’ e a un dubbio metodico. «Possiamo affermare, con assoluta convinzione, che la Performance reclami, perentoriamente, una specificità da opporre a quella del teatro di cui spesso si paventa la rarefazione?», trovandosi d’accordo con Lorenzo Mango e con De Marinis, per il quale esiste l’inutilità di una disputa terminologica, ma, forse, anche con Mackenzie, per il quale la Performance debba essere intesa come forma di conoscenza, benché Dario Tomasello sia convinto che possa ritenersi tale a livello disciplinare, ma non certo a livello storico, dato che la Performance è nata nel momento in cui un ur-performer decise di dialogare con la sua comunità, attraverso l’uso del corpo e della gestualità, mettendo le basi della ritualità sociale che, nel tempo, diventerà ritualità sacrale.