«Quaderni di regia e testi riveduti. Finale di partita», recensione di Andrea Bisicchia

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere», 17 luglio 2022

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo occupati dei Quaderni di regia di Beckett, a proposito di Aspettando Godot, un lavoro certosino, di profondo impegno filologico, il medesimo che contraddistingue la pubblicazione dei Quaderni di regia di Finale di partita, a cura di Luca Scarlini, edito da Cue Press. Si tratta del testo più filosofico di Beckett e, in quanto tale, del più suscettibile di cambiamenti, di aggiunte, di revisioni, di cancellazioni, data anche l’universalità degli argomenti trattati, come il dolore, la solitudine, l’esclusione, la cecità metafisica, il rapporto con l’infinito e quello tra vita e morte.

Un fatto è certo, per chi volesse mettere in scena, in futuro, i due capolavori di Beckett, non potrebbe fare a meno di confrontarsi con questi Quaderni di regia, benché esistano delle versioni originali alle quali in parecchi hanno attinto precedentemente. Spetterà, pertanto, ai nuovi registi poter scegliere, consapevoli del fatto che ogni messinscena risenta delle circostanze variabili che rendono l’interpretazione di un testo sempre differente. Beckett ne divenne consapevole nel momento in cui decise di diventare regista di se stesso, quando, cioè, si accorse della assoluta autonomia dello spazio scenico rispetto a quello della scrittura.

Il volume è preceduto da una Nota al progetto editoriale di James Knowlson, da una prefazione di Stanley E. Gontarski che è anche autore dell’edizione critica, ottimamente curata da Luca Scarlini.

Cosa ci insegnano le edizioni critiche? Che il lavoro creativo non ha mai una sua stabilità, in particolare quello del teatro, sempre soggetto al parere del pubblico, ed è quindi in continua evoluzione. Se ne accorse Pirandello dopo i fischi alla Prima dei Sei personaggi (1921), su cui intervenne nell’edizione del 1925, se ne accorse Eduardo che, quando non sentiva ridere il pubblico, metteva subito mano al testo, per non parlare di Dario Fo che riscriveva le battute in perfetta sintonia con le reazioni del pubblico. Forse i suoi testi sono quelli che contengono più varianti, in questo è molto simile a Beckett, benché, in una lettera scrivesse: «Il teatro è più rilassante per me che vengo dalla narrativa», sembrano le stesse parole che Pirandello scrisse al figlio Stefano, dopo il debutto complicato del Berretto a sonagli, interpretato da Angelo Musco: «Finalmente posso ritornare alla narrativa», aveva, infatti, momentaneamente messo da parte: Uno, nessuno e centomila.

L’invito a Beckett di dirigere Finale di partita arrivò nel 1967, dallo Schiller Theater di Berlino, dieci anni dopo il debutto al Royal Court di Londra, con la regia di Roger Blin, con cui Beckett si era congratulato.

Gontarski, nella prefazione, riporta qualche lettera e ricostruisce lo stato d’animo dell’autore e del regista che ammette: «Quando l’ho scritta non sapevo nulla di teatro». Sembra che, nel momento in cui iniziò le prove di Finale di partita, Beckett avesse memorizzato tutto, comprese le didascalie e la punteggiatura, proprio per evitare qualsiasi interruzione durante le prove, diceva agli attori «Dobbiamo ridurre tutto ancora di più, deve diventare semplice, appena pochi piccoli movimenti, precisi», insomma, il parto risultava alquanto difficile.

C’è da dire che, al contrario di Aspettando Godot, Finale di partita non ebbe subito successo nelle edizioni precedenti, soltanto nel 1964 si registrano gli esauriti, in occasione della interpretazione di Patrick Magee (Hamm) e Jack MacGowran (Clov).

Nel 1980, su richiesta di Rick Cluchey, Beckett ne diresse un’altra versione, con delle revisioni abbastanza consistenti che i milanesi poterono vedere nella Stagione 1984-85 al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti dove, col San Quentin Drama Workshop, debuttarono sia Aspettando Godot che Finale di partita, con la regia di Beckett, in serate memorabili, dove si poté capire ciò che l’autore irlandese andava sempre ripetendo: «Il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono sul palcoscenico, usando le parole».