Milo Rau, l'artista che vuole cambiare il mondo

Christian Raimo, «Internazionale».

Alla fine di settembre il regista svizzero Milo Rau ha portato al RomaEuropa festival Orestes in Mosul, il suo ultimo lavoro, parzialmente ambientato in Iraq. Il 1 ottobre al Fit, il Festival internazionale di teatro al Lac di Lugano, ha presentato il suo film del 2017 The Congo tribunal, già proiettato al RomaEuropa festival nel 2018; l’opera mette in scena un immaginario tribunale internazionale per i crimini di guerra per il conflitto civile che attraversa la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) dalla fine degli anni novanta. Il 10 ottobre, sempre a Roma al teatro Argentina, ci sarà la prima presentazione pubblica del suo prossimo progetto La rivolta della dignità – Resurrezione, una sorta di reenactement del Vangelo con il sindacalista dei braccianti Yvan Sagnet al posto di Gesù.

È difficile stare dietro alla capacità produttiva di questo regista, la cui mappa dell’intelligenza creativa corrisponde al territorio infinito delle possibilità perfino geografiche; ma dall’altra è necessario farlo perché Rau è oggi uno degli artisti non solo teatrali più importanti al mondo, e anche i suoi lavori di passaggio lasciano negli spettatori una tale molteplicità di spunti di riflessione sul senso del teatro oggi che vanno presi come riferimenti per censire lo stato dell’arte.

Partiamo da Orestes in Mosul. Ci sono attori straordinari che interpretano Agamennone, Clitennestra, Oreste, Pilade e al tempo stesso s’interrogano sul perché e il come rappresentare l’Orestea oggi: lo fanno in due spazi, sul palco e in uno scenario post bellico a Mosul, in Iraq. Rau ha portato la sua compagnia e altri attori, professionisti e non, nel piazzale dove il gruppo Stato islamico (Is) metteva in scena le sue esecuzioni. Noi spettatori vediamo le immagini registrate su un grande schermo sopra il palco.

La vicenda degli Atridi – l’Orestea è l’unica trilogia del teatro classico che ci è arrivata intatta – è la storia di come dalla successione di fatti di sangue si passi alla giustizia: Agamennone uccide la figlia Ifigenia per avere il sostegno degli dèi nella guerra contro Troia; la moglie Clitennestra lo tradisce e complotta insieme al cugino Egisto mentre Agamennone è al fronte e lo uccide al suo ritorno insieme alla sua schiava concubina troiana Cassandra; il loro figlio Oreste vendicherà il padre uccidendo la madre e il suo amante e verrà perseguitato dalla furia delle Erinni, ma poi ci sarà un processo con il tribunale che scagionerà Oreste, con Atena a dargli l’assoluzione finale e a trasformare le Erinni in Eumenidi: il senso di vendetta tramutato in senso di giustizia.

Il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che spesso identifichiamo con l’audience.

L’ambizione di inscenare questa tragedia a Mosul, teatro di conquista dell’Is prima e di una vendetta sanguinaria poi, nella liberazione della città, è talmente potente che ogni minuto del lavoro di Rau lascia un senso di vertigine, moltiplicando le allusioni – le parole dell’Orestea diventano di volta in volta inquietantemente letterali (le esecuzioni violente), utopiche (il processo che dovrebbe dare il via alla civilizzazione), o anche comiche: nella parte più straordinaria dello spettacolo il ritorno di Agamennone viene trasformato in una cena da commedia borghese a quattro – Agamennone, Cassandra, Clitennestra, Egisto – con frecciatine e veleni.

La generosità, l’apertura totale, la curiosità sono gli elementi qualificanti di questo genere di spettacoli. Milo Rau ha una funzione essenziale nel dibattito sull’arte contemporanea: non solo perché, come si dice ormai di qualunque performance multimediale, cancella i confini tra le discipline, ma soprattutto perché manda in cortocircuito un’altra serie di aspetti che riguardano lo statuto dello spettacolo stesso – il processo produttivo, il rapporto con il dibattito politico contemporaneo, il ruolo dell’attore. E c’è di più: il campo di riflessione più forte che Rau scuote è quello della fruizione, quella società che oggi spesso noi identifichiamo semplicemente con l’audience.

L’opera di Rau va vista allora più come un modo di eliminare le distinzioni tra teatro e agorà. Quasi sempre i suoi lavori ritrasformano le scene (di guerra, televisive, politiche) in scene sul palco. E quasi sempre sul palco ci sono altre forme di rito che si fondono con quello teatrale. Il caso di Congo tribunal è paradigmatico: il film somiglia a un mockumentary su un tribunale internazionale sui crimini di guerra che sono avvenuti in Congo negli ultimi vent’anni; in realtà per lo spettatore è da subito chiaro che il tribunale è una messa in scena. Questo non rende meno potente il rito della messa in scena, ma anzi la avvalora, perché anche noi nello schermo facciamo parte del rito.

L’ambizione di Rau è quella di sfondare la divisione tra due comunità, quella degli artisti e quella degli attivisti. «Io sono un attivista e un artista», scrive nel libro Realismo globale, per poi analizzare qual è il contesto in cui oggi teatro e politica si confrontano, con un grado di disinteresse reciproco:

«Le opere di nuova concezione o quelle non europee, così come gli attori non professionisti o quelli di lingua straniera, gli attivisti o i gruppi indipendenti, compaiono solo nei programmi collaterali e sulle scene ‘off’. Si è costretti a fare una scelta: scena indipendente o teatro di città, produzione o distribuzione, adattamenti classici per un pubblico di ceto medio o carambola di tour internazionali per le élite globali. Tutti i tentativi di ‘aprire’ il modello del teatro di città, di combinare i modi di produzione urbani, nazionali e internazionali, e di creare un ensemble aperto alla collaborazione continua con le compagnie ospiti, sono falliti a causa dei limiti impliciti nel sistema del teatro di città. Il primo passo verso il ‘teatro di città del futuro’ è quindi trasformare le regole implicite in regole esplicite – e i dibattiti ideologici in decisioni concrete. Che aspetto dovrà avere veramente il teatro di città del futuro?»

L’esito di questa impasse è stata per Rau la scrittura del manifesto di Gent (la città belga dove dirige un teatro dal 2018), un decalogo che vale la pena riportare per intero.

  1. Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico.
  2. L’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle repliche, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro.
  3. L’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo – sia esso tratto da un libro, da un film o da un’opera teatrale – è disponibile all’inizio del progetto, non può costituire più del 20 per cento della durata finale della pièce.
  4. Almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori di uno spazio teatrale. ‘Teatrale’ è qualsiasi spazio all’interno del quale sia già stata provata o messa in scena una pièce.
  5. Almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione.
  6. Almeno due degli attori in scena non devono essere dei professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti.
  7. Il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubi, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida.
  8. Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali.
  9. Ogni produzione dev’essere messa in scena almeno in dieci località, in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio di NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto.

Un manifesto è un atto performativo e politico insieme, e in questo caso è un proclama coraggioso, che ricorda un po’ le undici tesi su Feuerbach di Karl Marx e un po’ il manifesto Dogma 95 dei registi danesi (Lars von Trier, Thomas Vinterberg… ). Queste regole servono per Rau a far somigliare un po’ di più il teatro a una società non solo contemporanea ma possibile, mentre sappiamo bene come il rischio evidente per chiunque vada a teatro oggi è quello di ritrovarsi rassicurato in qualche tradizione culturale, in una piccola comunità borghese, colta, laica, aperta.

Non sempre i suoi spettacoli sono del tutto riusciti (cosa poi vuol dire riuscito?), ma i difetti o i fallimenti sono interessanti quanto i momenti felici. Il meccanismo del reenactement in The repetition – visto l’anno scorso al Teatro Vascello sempre per Romaeuropa – era mostruoso per la capacità di portare la macchina teatrale a mangiarsi gli altri mezzi di comunicazione in una sorta di teatro aumentato.

Gli attori prima raccontavano, poi discutevano su come rappresentare un omicidio omofobo feroce avvenuto a Liegi nel 2012, e infine lo mettevano in scena, contemporaneamente sul palco e sullo schermo, attraverso un cameraman che a mano filmava il tutto in tempo reale. Questa modalità – che Rau usa spesso, anche in Orestes – è perturbante, perché liquida qualunque discussione contemporanea sulla rappresentazione: non viviamo in un’era in cui siamo sempre allo stesso tempo dal vivo e sullo schermo?

Come dice direttamente Rau:

«Come artista, sono prima di tutto e perlopiù interessato a un coinvolgimento totalmente pratico e reale. La sola cosa che mi è stata insegnata senza sosta negli anni dei miei studi liceali è stata la necessità di essere critici. Essere intelligenti significava essere capaci di analizzare e decostruire le narrazioni e le letture della realtà e, se poi si diventava artisti, soffrirne un po’ o, a seconda dell’approccio estetico, affrontarle direttamente o indirettamente. La fantasia sociale è esattamente l’opposto: è attiva, ha l’urgenza di essere realizzata, vuole abbracciare in un colpo solo il mondo intero e soprattutto lo vuole cambiare».

Ed è questo l’esito più profondo, da un punto di vista politico, dell’opera di Rau. Al tempo dei social network, dei populismi, della crisi della democrazia rappresentativa, non siamo soltanto tutti performer, ma abbiamo tutti in quanto performer una responsabilità politica.

In questo senso va il nuovo film sul Vangelo, che presenterà il 10 ottobre a Roma. In questo vanno tutte le interviste del suo libro, che sono una chiamata generale alla militanza per una generazione globale che ha imparato a interpretare il mondo, ma non si è messa alla prova nel trasformarlo.

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