Strehler, inno alla luce artigianale. Svoboda, gloria alla tecnologia. Solo Wilson trattò la luce come una protagonista

Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».

Negli anni Settanta, mentre Strehler rivendicava la potenza della luce, grazie alla professionalità dell’elettricista, perché odiava quella computerizzata, mentre Svoboda creava le sue scenografie con l’uso della luce e dei mezzi informatici, lasciando, entrambi, lo spazio alla parola dello scrittore, Robert Wilson fece in modo che la luce assumesse un linguaggio assolutamente autonomo, fino a diventare protagonista dello spettacolo, trasformando, così, l’illuminotecnica in una vera e propria drammaturgia, costruita su effetti visivi, il cui fine era quello di andare contro la scena statica, di estrazione pittorica, per costruire una nuova realtà spaziale, vivificata da giochi cromatici e dalle infinite possibilità offerte dal mezzo luminoso.
Cristina Grazioli e Pasquale Mari hanno dato vita a un libro, edito da Cue Press, Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, nel quale affrontano l’argomento sia in modo teorico, essendo la Grazioli docente di Storia ed Estetica della luce, che in modo pratico, essendo Mari un Disegnatore luce e Direttore della fotografia.
Entrambi hanno affrontato un argomento alquanto tecnico che sfugge allo spettatore, ma, nello stesso tempo, lo hanno analizzato dal punto di vista estetico, capace di rendere più complice lo spettatore. In fondo, hanno cercato di spiegare in che modo l’universo della tecnica possa corrispondere all’universo della creazione artistica, e in che modo la «grammatica del vedere» possa essere conseguenza della «grammatica della rappresentazione» e, ancora, in che modo luce e colore possano essere interdipendenti.
Entrambi parlano di «partitura luminosa», in rapporto alla «partitura », e di spettacolo visivo autonomo, rispetto a quello rappresentativo. Il confronto tra i due tende a coinvolgere sia il versante storico-critico che quello della pratica scenica, con sconfinamenti che vanno dal territorio teatrale a quello pittorico coloristico, tanto che il colore, come accade in Wilson, viene percepito come un valore, non soltanto simbolico, ma anche psicologico.
L’approccio dei due autori avviene attraverso un dialogo di tipo platonico, con pagine puramente teoriche che si alternano con altre puramente pratiche nelle quali il visibile è messo in contrapposizione all’invisibile, dato che, spesso, la luce acquista un valore metafisico, grazie al suo potere di trasformare la «fabbrica scenica» in una scrittura visiva, tanto che il visibile e l’invisibile diventano il mostrato e il nascosto.
Insomma, la luce serve per esprimere l’inesprimibile.
Il volume è diviso in brevi capitoli, dai titoli alquanto emblematici: Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voci, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria. L’utilizzo di questa nomenclatura ha a che fare con l’utilizzo della luce in scena, attraverso la diversità della sua declinazione , della sua variabilità e materialità, tanto da essere trasformata in una vera e propria ‘scrittura’, dato che, sul palcoscenico, non si muovono soltanto gli attori, ma anche le forme, gli spazi, i silenzi, le parole non dette che la luce contribuisce a fondere. Ogni capitolo ha delle referenze fotografiche, con le quali, i due autori cercano di spiegare i loro concetti. Interessante la bibliografia che spazia dalla storiografia teatrale a quella pittorica e fotografica.

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