«I teatri di Pasolini», recensione di Paolo Pizzimento
Paolo Pizzimento, «Oblio», anno IX n. 33.
Con I teatri di Pasolini, Stefano Casi ripropone l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio comparso in Pasolini un’idea di teatro (1990). In questa nuova edizione sono state operate numerose integrazioni, chiarimenti formali e concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini, che arrivano ora fino al gennaio 2019. Il volume consta di cinque parti: Teatri della formazione (Bologna, 1938-43), Teatro della polis, Teatro dell’io (Casarsa, 1943-49), Teatri capitali (Roma, 1950-65), Un nuovo teatro: le tragedie (1965-66), Un nuovo teatro: la teoria e la pratica (1966-69), Teatri dell’esistenza (1970- 75). Seguono due cospicue ed assai utili sezioni su Pasolini in scena e sulla Teatrografia pasoliniana.
Casi mostra come la fascinazione del teatro in Pasolini risalga all’infanzia, con la sua partecipazione agli spettacoli della filodrammatica di Casarsa. A Bologna, poi, l’adolescente Pasolini vive il teatro come «un concreto percorso per testimoniare il proprio impegno culturale in diretta comunicazione con la società» (cap. 1 § 1), interessandosi alla recitazione e, soprattutto, alla direzione. Tant’è: egli pare sentirsi pronto per il teatro ben prima che per la poesia e nel 1938 licenzia il dramma in tre atti La sua gloria, con il quale partecipa al concorso studentesco Ludi Iuveniles. Tentativo ancora acerbo, certo, e fortemente letterario; ma che manifesta un’etica del sacrificio che si scontra con la chiassosa e ridondante retorica fascista sull’intervento in Spagna e, soprattutto, un’idea già matura del «teatro come messinscena del conflitto esistenziale» (cap. 1 § 1).
Negli anni universitari, Pasolini approfondisce la sua vocazione teatrale: conosce e apprezza i testi di Synge, Yeats, Joyce, Wilde, Calderon de la Barca, Lorca e O’Neill; legge Freud, la cui teoria ritiene «una griglia consapevole di riferimento per costruire autobiografisticamente molte opere» (cap. 1 § 2). Emerge già, del resto, una propensione a riflettere sull’inevitabile questione della riforma del teatro e sui meccanismi non solo drammaturgici dell’esperienza scenica – e lo documentano l’attenzione e i commenti da lui riservati alla messinscena di Enrico Fulchignoni di Piccola città. Se il tentativo pasoliniano di quegli stessi mesi di creare un gruppo teatrale si risolve in un niente di fatto, la sua riflessione teatrale lo pone nelle condizioni di approfondire al meglio la questione centrale della sua poetica, che darà i suoi frutti già con Poesie a Casarsa (1941): non tanto l’enunciazione orale della poesia quanto il suo contrario, la trascrizione letteraria di una voce. Né è per caso che la scoperta del friulano, della concreta e viva lingua parlata, si concretizza nell’approdo di Pasolini alla regia, proprio a Casarsa, con Un angelo peccatore di Isnardo Sartorio. Come sostiene Casi, già in questa fase «il dialogo, cioè il grado minimo di scrittura teatrale al confine con la scrittura poetica (o viceversa: un’articolazione complessa della scrittura poetica al confine con la drammaturgia), incarna la forma più aderente a restituire una drammaticità interiore ed esistenziale che la monodia non è in grado di sostenere» (cap. 1, § 2). Di ciò è ulteriore riprova la sacra rappresentazione La domenica uliva, che costituisce la seconda parte di Poesie a Casarsa a metà tra misteri medievali e laude iacoponiche e sperimentazione in opposizione al teatro borghese.
Nel Dopoguerra Pasolini, trasferitosi ormai stabilmente a Casarsa, seppur lontano dai centri della sperimentazione non lascia venir meno la propria riflessione teatrale. Nell’ambito della rivalutazione e della ricreazione artistica del friulano, Pasolini si confronta con i dialoghi di Ermes di Colloredo (1622-1692) e con la teatralità popolare. Frutto di questa stagione è I Turcs tal Friùl (1944) che, sebbene mai rappresentato né pubblicato, è considerato da Pasolini la miglior cosa che abbia scritto in friulano, «la prima opera profondamente politica di Pasolini, nel senso più proprio e strutturale del termine, perché assorbe i meccanismi stessi della creazione della tragedia ateniese e incide nel senso di appartenenza alla polis trasfigurata nel paìs di Casarsa - che vede rispecchiati, rivivificati e riproblematizzati i propri momenti fondanti e unificanti» (cap. 2 § 1). Con la creazione dell’ Academiuta di lenga furlana, il teatro entra nella pratica pedagogica: nel luglio del 1945 Pasolini mette in scena la sua favola drammatica I fanciulli e gli elfi. Con La morteana, invece, egli si avvicina a una sorta di teatro dell’io: nuova fase e nuovo nume tutelare, Jean Racine, «che offre a Pasolini quell’orizzonte poetico e drammaturgico che, sotto il nitido segno della classicità, nasconde le più sconvolgenti turbolenze dell’animo umano» (cap. 2 § 3). Ma Pasolini si lascia penetrare anche dal teatro borghese e dalle atmosfere di Strindberg, in particolare con II cappellano e La poesia o la gioia (1947), che esplorano il problema della centralità dell’io, ora inquadrato nei suoi turbamenti sessuali, ora nella problematicità dei rapporti familiari e politici.
Con la fine burrascosa dell’esperienza casarsese e il trasferimento a Roma, da un lato Pasolini si dà all’«impegno esoreistico nei confronti degli anni friulani» (cap. 2 § 3), dall’altro rivede il suo ruolo di intellettuale e le sue nuove responsabilità gramsciane nei confronti della cultura e della società nazionali. La scoperta urbanistica e antropologica, sociale e politica di Roma e dell’Italia si fa strada nella sua opera grazie a nuove forme di scrittura destinate a culminare in tre pietre miliari nei rispettivi campi: nella prosa Ragazzi di vita (1955), nella poesia Le ceneri di Gramsci (1957) e nel cinema Accattone (1961). In questa fase, si può dire, il teatro si fa sentire per la sua assenza, sebbene non manchino sprazzi di riflessione: l’eco di un Racine mediato da Proust toma in Récit (1955), mentre sempre più si fa strada in Pasolini un’idea di tragedia come attacco al potere borghese.
Determinanti, in questa fase, sono i contatti con Laura Betti, Adriana Asti e Alberto Moravia che favoriscono un rinnovato sforzo di riflessione. Pasolini cerca la verità e la vita del teatro in un dialetto che non consista in accenni artificiosi e superficiali ma piuttosto in una forza espressiva tutta gestuale e corporea, un silenzio dialettale; e torna alla scrittura con l’atto unico Un pesciolino (1957). D’altro canto, il primo impatto attivo con il teatro avviene su una scena relativamente marginale e in sperimentazioni all’intemo di forme alternative che pongono le basi per l’avvento di un nuovo teatro: una di tali forme alternative è quella del recital, al quale Pasolini si dedica per conto di Laura Betti. Il vero esordio teatrale di Pasolini, però, avviene nella stagione 1959-1960 con Vittorio Gassman: questi gli richiede una traduzione dell’Orestiade per il neonato Teatro Popolare Italiano: punto di partenza di Pasolini non è, però, il greco di Eschilo ma la propria lingua poetica, con la quale egli «interpreta la trilogia come il passaggio da una società primitiva, istintiva e uterina, a una società moderna, razionale e virile, in cui nascono l’assemblea e il suffragio» (cap. 3 § 3). Il successo dell’Orestiade lancia Pasolini tra i protagonisti del teatro italiano e, al contempo, gli fa apparire il teatro come «uno dei luoghi possibili della sua grande offensiva intellettuale» (cap. 3 § 4). È in questa fase che egli rilancia il vecchio testo, riveduto e corretto, de II cappellano, col titolo di Storia interiore; che, tuttavia, riceve poca attenzione e un perentorio rifiuto da parte di Calvino e torna nel cassetto, in attesa di tempi migliori. Ciò non basta a frenare il rinnovato interesse teatrale di Pasolini, che si esplicita ne II Vantone, traduzione del Miles Gloriosus in romanesco, sempre per conto del Tpi. La traduzione sarà rappresentata solo nel 1963 dalla Compagnia dei Quattro e costituirà un esito manieristico, senza reali innovazioni rispetto alla precedente Orestiade. Eppure, qui, «Pasolini si costringe a inoltrarsi in questioni che non avrebbe mai affrontato con Eschilo, quelle sul ‘fantasma ontologico del teatro’. [...] L’attualizzazione del testo, splendida e riuscita intuizione della traduzione eschilea, viene qui subordinata a una non meglio identificata ontologia teatrale che finalmente lo conduce a trovare il registro giusto per la scelta linguistica, che non è né letteraria né dialettale: l’avanspettacolo» (cap. 3 § 5).
Il 1963 è un anno fondamentale per Pasolini: anzitutto, segna il culmine della sua folgorazione brechtiana, «basata su un proficuo fraintendimento o, se vogliamo, su una personalissima reinterpretazione del drammaturgo tedesco» (cap. 3 § 6); ma è soprattutto l’anno di una profonda crisi ideologica ed esistenziale essenziale per l’evoluzione dell’opera stessa di Pasolini, che ora si interroga sull’essenza stessa della lingua quale strumento capace di rappresentare la realtà. Italie magique (1964), costituirà l’estremo tentativo di sperimentazione del codice nel teatro di Pasolini e inaugurerà la stagione antibrecthiana del Nostro, ormai lontano dalla figura dell’intellettuale ‘gramsciano’. Il congedo da Brecht non avviene però in teatro bensì nel cinema, con Uccellacci e uccellini (1965), che «dialoga con le analisi su Brecht e sulla fine del ‘mandato degli scrittori’ e consente a Pasolini di portare al massimo grado di coscienza ed efficacia la rappresentazione della crisi delle ideologie, con un’ipotesi di rifondazione di quel ‘mandato’» (cap. 3 § 8).
Frattanto, Pasolini ha ripreso Storia interiore su interessamento di Sergio Graziani; il testo, però, è sentito ormai poco praticabile rispetto alle nuove meditazioni pasoliniane sul teatro come problema linguistico. Pasolini, allora, scrive una stesura definitiva dell’opera col titolo di Nel ’46! Anche qui «rimane centrale la riflessione sulle origini della parola teatrale come espressione di una sofferenza dovuta all’irriducibilità che contrappone libertà dell’individuo e regole sociali: il teatro assume così l’incarico di rappresentare la denuncia dell’eresia e della diversità in chiave politica-soggettiva» (cap. 3 § 9).
Gli anni dal 1964 al 1967 registrano il «corteggiamento reciproco fra teatro italiano e letterati» (cap. 4 § 1) che sarà non a caso oggetto della celebre inchiesta di Maria Rusconi per «Sipario». Pasolini risponde affrontando di petto la questione della lingua, registrando la frattura tra la lingua parlata sulla scena e quella della vita quotidiana e, persino, dei romanzi: è dunque necessario «togliere la lontananza tra teatro e realtà, parlando la stessa lingua della realtà attraverso un’attenzione alla pronuncia ma anche al corpo e al gesto» (cap. 4 § 1).
Nel 1966 Pasolini inizia a comporre le tragedie destinate a costituire il culmine della sua scrittura teatrale: Orgia, Pilade, Affabulazione, Bestia da stile, Porcile e Calderón.
Progressivamente, gli assilli metalinguistici lasciano spazio al cuore tematico e ideologico di un tragico che – tramontate le classi e le ideologie e superati con esse i modelli di Gramsci e Brecht – oppone alla borghesia il corpo-corpus quale «unica dimensione umana possibile rimasta» (cap. 4 § 9). «Non è l’azione che si fa poesia, ma è la poesia che si fa azione. E la poesia che si fa azione è prima di tutto teatro, spazio che consente di gettare fisicamente il corpo nella lotta, metafora ideale del corpo nella scena» (cap. 4 § 9). Tragedie borghesi, quelle di Pasolini, che tuttavia sono motivate da un intento dichiaratamente antiborghese in un’idea un teatro ormai diventato strumento par excellence con cui addentrarsi nel terreno ignoto e nemico della classe dominante, l’arma fisica scagliata dal suo autore contro gli stessi spettatori. Recupera qui, Pasolini, una tensione pedagogica che gli viene dalla lettura dei dialoghi platonici; è un passo fondamentale, poiché il procedimento platonico «si traduce nella previsione dello spettatore all’interno delle tragedie stesse, non in quanto soggetto interpellato, ma in quanto oggetto reale del procedimento gnoseologico che sottende l’opera» (cap. 4 § 9). È pur vero che le tragedie di Pasolini non vengono recepite né dal nuovo teatro né dal teatro tradizionale: sono semplicemente ignorate.
Nella seconda metà del 1960, Pasolini rimane relativamente lontano dalla pratica teatrale. Eppure, «la predominanza assoluta di temi e segni teatrali nella cinematografia pasoliniana conferma la centralità del teatro come spazio di innovazione e pertinenza artistica per Pasolini; e a ogni modo fa emergere in più occasioni riflessioni su un teatro la cui elaborazione è in pieno svolgimento» (cap. 5 § 1). Frattanto, i tempi sono maturi per un’esposizione più diretta nel dibattito teatrale: ecco comparire su «Nuovi Argomenti» il Manifesto per un nuovo teatro (1968), progetto politico e culturale che presenta un’idea di teatro «sotto la forma della provocazione, cancellandone in partenza qualsiasi elemento ancora assoggettabile a un eventuale compromesso con l’establishment teatrale, e calcando la mano sulle proposte più spiazzanti, con la certezza dell’impraticabilità delle proposte stesse» (cap. 5 § 2). Parimenti si pone in Pasolini la ricerca di un pubblico che non sia più indifferenziato ma precisamente selezionato in base alla sua responsabilità intellettuale. Quello tra teatro e pubblico, perciò, è teorizzato come un rapporto paritetico fra intellettuali «come in un agit-prop borghese illuminato» (cap. 5 § 2). Senza peraltro alcuna complicità: se il teatro si rivolge alla classe borghese odiata da Pasolini, a questa rimane di registrare la catastrofe in atto messa in scena dal teatro stesso senza alcuna possibilità operativa. In questo processo, fondamentale sarà il ruolo dell’attore, chiamato ora ad essere un intellettuale armato di una reale e profonda coscienza delle trasformazioni sociali, impegnato politicamente, ma anche l’officiante consapevole di un rito arcaico di evocazione del mito e dei suoi personaggi.
La riflessione teorica si accompagna a una febbrile attività di composizione, una vera e propria «iperattività drammaturgica, anche se più progettuale che operativa» (cap. 5 § 3). Nel 1968 Pasolini dirige un proprio testo, Orgia, per lo Stabile di Torino – ma nello spazio decentrato e underground del Deposito d’Arte Presente che si presenta «come l’opera prima a tutti gli effetti di un regista con almeno due decenni di assenza dalle scene, e in un certo senso mostra in alcuni passaggi il lato più ingenuo della sua concezione» (cap. 5 § 3), ciò che spiega in parte il fallimento dello spettacolo. Tentativo non riuscito e frainteso dai critici, Orgia, ma riuscito come esperimento che sancisce «una sostanziale incomunicabilità fra l’autore e il pubblico, accentuata dall’ostracismo dei critici e degli addetti ai lavori, uniti quasi unanimemente nel tentativo di respingere l’intellettuale scomodo e il suo imbarazzante teatro politico fuori dal loro campo di controllo» (cap. 5 § 3). D’altro canto, l’interesse teatrale di Pasolini, mai domo né arreso, è riversato in campi contigui come il cinema, che ne riassorbe l’oralità (basti pensare a Porcile e Medea, veri e propri dirottamenti del teatro nella pellicola) e nella poesia che ne riassorbe la scrittura.
Nell’ultimo capitolo del volume, Casi analizza l’ultimo lustro della vita di Pasolini, segnato dalla fuga da ogni convenzione artistica, dalla costante ricerca di una forzatura dei confini e di un’opera che, sulla scia dei drafts di Pound, sia programmaticamente impura, incompleta, aperta. «Assumono centralità come mai era accaduto prima d’ora la voce, il corpo, le azioni dell’autore che non è più soltanto garante dell’opera, ma inizia a essere parte oggettiva e sofferta dell’opera stessa» (cap. 6 § 1). In questa fase di esasperata rottura degli schemi il teatro pare scomparire; e non per caso il 1971 sarà l’anno delle dichiarazioni liquidatorie dell’esperienza-utopia teatrale. Certo: restano spazi aperti, possibilità come la prima mondiale di Affabulazione oder der Königsmord al festival austriaco Steirische Herbst per la regia di Peter Lotschak, che tratta Pasolini non solo come un drammaturgo vero ma persino come un classico. Ma dopo il 1968 il mondo del teatro è in pieno fermento con le sperimentazioni che travolgono ogni dogma della teatrabilità. Pasolini si reinventa per l’ennesima volta come il polemista corsaro che dalle pagine del «Corriere della Sera» oppone un passato felice a una modernità tragica. Il teatro - un teatro tragico, mentale, esistenziale, sempre più coincidente con la realtà - toma a riproporsi in Pasolini quale metafora dell’esistenza. «Avvertendosi come eroe di una tragedia senza più alcun orizzonte catartico o almeno interpretativo, Pasolini decide di rappresentarsi mettendosi in scena nel tragico ‘grande teatro dell’esistenza’» (cap. 6 § 1). In questi anni, però, Pasolini riprende in mano le tragedie, tra cui Bestia da stile, con la quale egli si propone di costruire una nuova forma, tragica e frammentaria. Il teatro, ancora, sta alla base del film Salò o Le centoventi giornate di Sodoma e ne costituisce «la cornice rivelatrice» (cap. 6 § 1).
Stefano Casi, con questo prezioso volume, coniuga un’agile (e tutt’altro che facile) lettura diacronica dell’avventura teatrale di Pasolini con una minuziosa analisi degli snodi decisivi e persino delle opere più rilevanti dell’autore. Offre inoltre una chiara visione dei rapporti di Pasolini con le personalità di spicco del teatro del tempo e dà rilevanza a tutti i progetti che la febbrile attività pasoliniana avviò senza mai portarli a termine. Emerge un’immagine completa di Pasolini per il quale il teatro non fu incontro occasionale, ma pensiero - e talvolta rovello - continuo, quasi un’impalcatura della sua intera produzione letteraria, che del teatro e della teatralità costituisce un continuo e mai esausto dirottamento.