«Un collettivo a Gent dopo Rau, per abbattere le mura del teatro e prendersi cura del pubblico» (Dramaholic)

Paolo Martini, «Dramaholic», 23 ottobre 2023

 Ci vuole un occhio di riguardo per quel che succede nei teatri e tra le compagnie del Belgio, dove vivono molti dei protagonisti di primo piano nel mondo delle arti performative: si possono così intuire o veder nascere nuove mode o veri e propri trend, com’è stato per il cosiddetto post-drammatico.
Perciò ha fatto una certa impressione l’annuncio di un’uscita di scena dal NT Gent, seppur non traumatica e totale, dell’autore e regista Milo Rau.

Si è già esaurita, dopo un quinquennio da direttore, la carica innovativa delle sue idee riassunte in un manifesto che è stato paragonato a quello del movimento Dogma per il cinema?
A ben vedere, era forse un esito prevedibile per chi ha seguito con attenzione la parabola artistica di questo eclettico e prolifico intellettuale, di formazione filosofica e sociologica, nato a Berna nel ’77.

Un nuovo «Manifesto di Vienna»?

 Già intorno ai 40 anni Rau era considerato un riverito maestro e dal Belgio aveva pure lanciato il suo decalogo, di cui tanto s’è parlato, per un teatro neo-post-brechtiano: la rappresentazione deve indagare la realtà con la realtà, fino al fondo più oscuro, deve essere leggera e trasparente, ovvero mostrare al pubblico il meccanismo stesso, deve andare fuori dal teatro, nelle zone più disagiate del mondo, e così via (vedi i suoi scritti tradotti in italiano nel volume Realismo globale, Cue Press 2023).
Ora Rau cambia vita per trasferirsi a Vienna ed entrare ancor più nel ruolo di organizzatore culturale, prendendo in mano il ricco programma del Wiener Festwochen, festival interdisciplinare di grande prestigio e di considerevole budget.
Come i grandi eventi del genere, anche quello viennese finanzia nuove produzioni e cerca di riunire il meglio della scena europea. Vedremo se anche da questa sede elaborerà un programma pubblico e di quale indirizzo.
Poco prima della nomina, Rau aveva aperto con successo l’edizione 2023 proprio con ‘Antigone in Amazzonia’, l’ultimo spettacolo della sua Trilogia dei Miti, un ciclo di classici attualizzati, ovvero di attualità viva riletta attraverso i classici.
E, ovviamente, un po’ anche da qui, ossia da quel che si vede in scena, bisogna partire per valutare il senso di una svolta che non riguarda soltanto il «dietro le quinte’» del teatro europeo.

Meno scena, più lotta

Con un’immagine internazionale ormai da guru, Rau aveva raggiunto un punto apicale di perfezione della sua proposta con La reprise. Histoire(s) du théâtre (I), autentico e inarrivabile gioiello, del 2018, l’anno stesso della sua nomina a Gent e del relativo Manifesto.
Uno spettacolo, La reprise, che ovunque vada in scena per il mondo, mantiene intatta la sua carica originaria, al punto che le prime rappresentazioni in Brasile sono costate a Rau e alla compagnia la censura e la messa al bando da parte delle autorità all’epoca Bolsonaro.
Episodio del 2020 che ha originato il contatto con il Movimento dei Senza Terra brasiliani e l’attrice militante Kay Sara, protagonisti di un’Antigone che nasce per denunciare i danni ecologici e la violenza di un trust del business globale dell’agricoltura per l’industria alimentare, con tanto di relativa petizione internazionale.
Negli anni è come se la proposta di Rau si fosse andata sedimentando sempre più verso il pur ammirevole terreno dell’impegno, con una spiccata attenzione sul piano del linguaggio alla parte per così dire non teatrale, casomai cinematografica e documentaristica.

Una svolta non dichiarata che è costata le prime critiche, pur in punta di penna, com’è successo per l’appuntamento romano con Antigone in Amazzonia. Ha scritto, per esempio, una giovane critica italiana che sul teatro di Rau aveva curato la monografia di Stratagemmi, Camilla Lietti: «si percepisce una sorta di sbilanciamento tra ciò che accade attorno allo spettacolo e quello che il pubblico vede di fronte ai propri occhi.
La messa in scena appare quasi come un momento di restituzione dell’azione politica che la muove».

Ancora una mano, Ursina

D’altro canto, quando non è Rau a tirare i fili personalmente, l’impianto del ciclo seriale di Gent sul teatro sembra potersi un po’ perdere per strada, vedi l’episodio III di Miet Warlop, lasciandosi alle spalle le regole stesse del Manifesto.
E a lungo andare il successo del teatro di Rau ha pure creato una schiera di imitatori, che ne hanno in qualche modo cristallizzato la carica innovativa in una formula di linguaggio misto, o più formule similari.
Persino un critico più istituzionale e addetto ai lavori, come Alessandro Iachino, dopo la prima di Antigone in Amazzonia a Gent, aveva accennato al «rischio del format, del dispositivo funzionale a ogni tragedia contemporanea, che sembra lambire pericolosamente questo palcoscenico»…
La valutazione che consegue a questa analisi della parabola Rau-Gent è varia, ovviamente gli invidiosi tendono a usarla per sminuire l’importanza del personaggio.
Senza nemmeno prendere in considerazione anche solo l’impatto oggettivo di un teatro civile così schietto, che sfida, come in quest’ultima occasione, le multinazionali alimentari più potenti (Agropalma, Danone, Ferrero, Nestlè, Unilever…) come mai nessun media di rilievo ha osato.
Chi preferisce lo sguardo freddo può arrivare persino a sostenere che Rau dovrebbe forse avere il coraggio di tornare indietro, verso il teatro-teatro più tradizionale, nel quale metterebbe facilmente a frutto la sua bravura.
In fondo si poteva già notare quanto lui stesso considerasse l’idea di cambiar strada, nella breve parentesi post-Covid, quando si è unito alla straordinaria attrice sua conterranea Ursina Lardi per confezionare una versione attualizzata e al femminile, davvero emozionante, del grande classico Everyman.

Una svolta, dieci capifila

Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).
Il comunicato ufficiale di NTGent sul dopo Rau recita con enfasi quanto sia importante l’obiettivo di una leadership ‘multivoiced’, specificando che i tre nuovi condirettori Barbara Raes, Yves Degryse e Melih Gençboyaci ’saranno congiuntamente responsabili della politica artistica nei prossimi anni’, ma dovranno pure considerare quanto NTGent si sia ‘evoluto da teatro cittadino con un’ensemble fissa, a una casa di creatori con diverse voci e pratiche artistiche. Questo porta una ricca tavolozza di domande, sfide e prospettive’.
Ufficializzando i nomi dei tre prescelti, il consiglio d’amministrazione del teatro parla addirittura di ‘un piano politico ambizioso con forti «house-makers» (Luanda Casella, Lara Staal e Milo Rau), artisti in residenza (Ontroerend Goed, Miet Warlop e Action Zoo Humain), e un nuovo produttore, il gruppo Berlin (ovvero Bart Baele e lo stesso Degryse, che s’immagina lasceranno sia Anversa sia il Centquatre-Paris, dove si erano accasati per il loro lavoro d’avanguardia sui linguaggi teatrali).
Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).
Il comunicato ufficiale di NTGent sul dopo Rau recita con enfasi quanto sia importante l’obiettivo di una leadership ‘multivoiced’, specificando che i tre nuovi condirettori Barbara Raes, Yves Degryse e Melih Gençboyaci ’saranno congiuntamente responsabili della politica artistica nei prossimi anni’, ma dovranno pure considerare quanto NTGent si sia ‘evoluto da teatro cittadino con un’ensemble fissa, a una casa di creatori con diverse voci e pratiche artistiche. Questo porta una ricca tavolozza di domande, sfide e prospettive’.
Ufficializzando i nomi dei tre prescelti, il consiglio d’amministrazione del teatro parla addirittura di ‘un piano politico ambizioso con forti ‘house-makers’ (Luanda Casella, Lara Staal e Milo Rau), artisti in residenza (Ontroerend Goed, Miet Warlop e Action Zoo Humain), e un nuovo produttore, il gruppo Berlin’ (ovvero Bart Baele e lo stesso Degryse, che s’immagina lasceranno sia Anversa sia il Centquatre-Paris, dove si erano accasati per il loro lavoro d’avanguardia sui linguaggi teatrali).

Rituali e cura della città

Non è finita con una semplice svolta dalla monocrazia al collettivismo: NT Gent vuole ribadire la vocazione internazionale e di formazione di nuovi artisti, e specifica pure che la nuova leadership «multivoiced» ha come obiettivo anche «rivendicare la città stessa come un importante spazio accanto al teatro/palco», puntando a curare più luoghi «di incontro in città in cui il pubblico, gli interessi, le storie, le lingue e le varie realtà sociali possano interagire fianco a fianco, con e per l'altro».
Da una precisazione sull’orizzonte temporale dei nuovi direttori (Yves Degryse e la singolare «ritualista» Barbara Raes inizieranno a lavorare part-time, Melih Gençboyaci sarà a tempo pieno da subito e curerà in particolare la formazione), si evince che potranno firmare come prima nuova stagione il 2025-2026, mentre la prossima procede con il cartellone di Rau.
Quindi se ne riparla tra più di un anno, ma è davvero curiosa e indicativa la prima anticipazione ufficiale: ‘quella stagione si aprirà con un rituale di fuoco nella nostra città di Barbara Raes’, ovvero uno spettacolo pubblico itinerante proprio sul tema dell’accettazione della morte, del superamento di uno stadio della vita, insomma del cambiamento.
Non a caso Raes, nel nuovo gruppo dirigente, ha proprio la vocazione di garantire che «la guarigione, la connessione e la cura siano una parte importante e di impatto del NTGent del futuro».

Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno.
Eugenio Barba (da 'I 5 continenti del teatro')

Tra i più avvertiti addetti ai lavori non manca chi fa subito spallucce, e dice: è da tempo che si sente parlare di teatro fuori dal teatro…Che novità sarà mai? Anche nei giornali c’è sempre chi è pronto a tagliar corto su qualunque proposta con la liquidatoria sentenza: di questo ne abbiamo già parlato. Certo, anche le più ammirate avanguardie degli anni Settanta andavano volentieri per strada, ma come ricorda il grande Eugenio Barba è una perdita di tempo star lì a discutere troppo di edifici, imprese e istituzioni a proposito del teatro. «Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno», semplicemente, anche se in effetti ci sono luoghi particolari, pietre e mattoni della storia del teatro che di per se stessi suscitano le emozioni di uno spettacolo.  

Com’è lontana l’Italietta

Ora, è ovvio che possa essere un bel rischio sostituire, seppur gradatamente, un nome internazionale di spicco come Milo Rau con un gruppo così ampio e variegato di protagonisti non ancora altrettanto noti e di diversa estrazione, del resto nella danza e nel teatro di mezza Europa è facile notare quanto siano le compagnie e i collettivi a garantire l’innovazione.
E non solo a Gent varano la direzione «multivoiced» ma addirittura la allargano in qualche modo ai tre più sperimentati autori di casa e a tre nuovi residenti di profilo davvero deciso, che sono l’artista Miet Warlop, già della covata Rau, gli stralunati e innovativi Ontroerend Goed e la compagnia di Chokri Ben Chikha, autore d’origine tunisina che, tra l’altro, in quanto a controversie non si lascia scappare nulla.
E certo è assai significativa la scelta stessa di accompagnare la collettivizzazione delle responsabilità a una svolta d’indirizzo altrettanto radicale, per provare a uscire dalle mura del teatro verso la città e a far riscoprire le radici pubbliche e la vocazione originale del teatro stesso alla città.
Vada come vada, fa veramente impressione guardare a Gent dall’Italietta delle lottizzazioni e delle lobbies, blindata nei salotti dei nostri polverosi grandi teatri pubblici, perlopiù in mano a personaggi di tutt’altra pasta, anche solo umana…
Immaginate uno qualunque dei nostri enti, fondazioni o istituzioni teatrali, con alla testa un’amorevole studiosa di rituali dell’elaborazione del lutto, come la Raes, o un «immigrato turco e operaio teatrale queer» come si definisce Gençboyaci?
Pensate a un direttore artistico d’impostazione teatrale tradizionale dei nostri, uno a caso: non riuscirebbe nemmeno a sognarsi un impianto innovativo come quello usato per i Sei gradi di separazione che hanno reso famosi i Berlin di Yves Degryse, con trenta spettatori davanti ad altrettanti schermi, piuttosto che il similare Nachlass dei Rimini Protokol (altro gruppo guardacaso oggi capofila del nuovo teatro-fuori-dal-teatro...).