Vittorio Gassman. L’autobiografia come sfida ermeneutica
Giuseppe Costigliola, Pulp Libri
Quando nel 1981 apparve nelle librerie, l’autobiografia di Vittorio Gassman suscitò un prevedibile clamore mediatico. L’era dei social non era ancora nata, ma sulla stampa e nelle TV fu con dovizia presentata e commentata, lo stesso autore s’impegnò non poco a pubblicizzarla. A distanza di un quarantennio un piccolo ma agguerrito editore, Cue Press, ha avuto la lodevole idea di ripubblicarla, con la prefazione di Emanuele Trevi: riecco dunque tra le nostre mani Un grande avvenire dietro le spalle. Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso.
La scelta reca in sé il riverbero di un evento culturale: queste pagine, la voce trepidante che le anima, sembrano provenire da un’altra era geologica. In un’epoca di endemica dimenticanza, di vuoto annichilente e pensiero globalizzato, (ri)scoprire la storia, l’arte, la cultura di questo Paese, quali strabilianti personaggi l’abbiano popolato, è un’esperienza quasi trascendente. A renderne imperdibile la lettura non è infatti la presenza di succulenti aneddoti sul dorato mondo dello spettacolo (che pure abbondano), ma il racconto vivido e densissimo di un lungo pezzo di storia – quella di noi tutti.
Gassman si dimostra un autentico scrittore, in grado di padroneggiare lessico e sintassi, forma stilistica e struttura narrativa. Il 'gioco della memoria' si lega al 'diagramma degli incontri' con un ritmo travolgente, e il racconto scorre con la suggestività d’una jam session parlata, abilmente intessuto intrecciando discorso memoriale e dialogo, autointervista ed epistola, brani lirici e uso del catalogo, riflessioni saggistiche e descrizioni romanzesche, in un avvicendamento di punti di vista, di passaggi dalla prima alla terza persona. Un virtuosismo tutt’altro che manieristico, che gli permette di dare forma compiuta ai ricordi, sempre sorvegliati e legati in un continuo dialogo al presente, in una modalità tutta postmoderna di riflessione lucida sull’atto del narrare, sul suo significato, sulle sue qualità terapeutiche: «Scrivere questo libro mi ha se non altro aiutato a guarire». Suggendo avidamente queste palpitanti pagine si ha insomma l’impressione che l’autore vi abbia infuso non soltanto grande mestiere e una notevole sincerità (condita da autodenigrazioni non assolutorie: il feroce egocentrismo, la smisurata ambizione, la vanesia volubilità, una visione di sé «pesante di ombre e di impietose confessioni»), ma tutto un mondo di conoscenze artistiche, culturali e umane accumulate in una vita.
L’intento di fare i conti con il proprio vissuto appare evidente, con il proposito di porsi quale «freddo e rigoroso cronachista dei fatti andati». La modalità comunicativa è però quella dell'affabulazione arguta, del gioco intelligente e provocatorio, della sfida intellettuale con se stesso e col lettore. Sfida lanciata sin dall’incipit: «Leggete – se ne avete voglia – soprattutto la punteggiatura: virgole, punti e virgola, punti, trattini, parentesi, e anche puntini di sospensione, perché no, crepi l’avarizia...». È una vera e propria affermazione di poetica, con la quale l’autore avverte che la verità andrà cercata nel non detto, in ciò che giace tra un’affermazione e l’altra, nell’allusione e nella strizzatina d’occhi: la figura dell’ellissi come modalità per giungere (o almeno tendere) al vero. Siamo dunque nel cuore del processo artistico, venato d’una sapida e accorta ironia, dal ludo citazionistico (altro elemento fortemente postmoderno) con quel lampante rimando a Totò e alla celeberrima lettera con Peppino, dal tentativo «di dare un controllo, una distanza» al dire, pur con la consapevolezza di una possibile resa all’inenarrabile che sempre circonda l’esperienza umana, poiché in queste come in altre memorie vi sono dei buchi, dei fatti che «sfuggono al raccontabile».
Il libro si lascia comunque gustare come una frizzante coppa di champagne, con una prosa d’una tale vividezza da non far rimpiangere troppo l’assenza di materiale iconografico. È diviso in capitoli dai titoli divertenti e financo sboccati, rispecchianti le fasi della vita, intrecciati in un misurato sovrapporsi tra piani narrativi passati e il presente della scrittura – davvero non ci si annoia mai. L’autore principia dalla «ricattatoria sinfonia dei colori e degli odori remoti» della casa di Genova dove trascorse i primi cinque anni di vita, passa in agile rassegna i rapporti con la sorella Mary e con la madre (donna dall’«istinto istrionico» e figura centrale della sua vita), gli anni calabresi e quelli romani, la precoce perdita del padre, le prime cotte, le grottesche esperienze militari, i fasti cestistici (Gassman è stato un nazionale di basket), la Roma occupata e i meravigliosi aneliti di libertà seguiti alla Liberazione, l’approdo all’Accademia nazionale di arte drammatica: le esperienze e i momenti topici ci sono tutti. Così come sono 'rappresentate' le tappe fondamentali della spettacolare carriera artistica, con i trionfi (molti) e i tonfi (rari), l’esordio alla regia teatrale con la messa in scena d’un indimenticato Amleto (1952), i formidabili spettacoli allestiti negli anni Sessanta e Settanta, la «rocambolesca impresa televisiva» del Mattatore (1959), il progetto 'progressista' di un Teatro popolare itinerante e la lotta durissima ingaggiata con i teatri stabili e «un pubblico reazionario e moralista», il momento del 'ritiro sull’Aventino' a leccarsi le ferite con feste e spettacoli organizzati nel villone di famiglia, «i pomeriggi opachi di alcol e di spleen». E, naturalmente, il contrastato rapporto con il cinema, dalla precoce «ripugnanza allora reciproca» con la macchina da presa all’amore germogliato grazie all’opera di grandi registi (tra cui Monicelli, 'padre putativo' insieme allo scrittore Sandro De Feo), il tutto sapientemente miscelato con la vita privata, aspetto sul quale Gassman indulge volentieri, mettendo a nudo se stesso e le sue tante donne (tacendo o mutando qualche nome qua e là), raccontando i tumultuosi matrimoni (lunga e particolareggiata la rammemorazione di quello con Shelley Winters, con la quale intreccia un dialogo a distanza a partire dall’autobiografia di lei, raccontando anche «la storia autentica della mia 'scoperta dell’America'»), le numerose 'scappatelle', i rapporti con i mostri sacri del teatro, con colleghi coetanei e più giovani, le amicizie di una vita e quelle finite male, le manie e le inquietudini esistenziali, il complesso rapporto con i figli.
Di sommo interesse sono poi le riflessioni sul mestiere dell’attore, sull’arte scenica e cinematografica, che testimoniano un impegno intellettuale ed emotivo intensissimo, una compenetrazione assoluta tra arte e vita. E ancora, sul tremendo iato tra finzione e realtà, intimamente e soffertamente avvertito, sull'imprescindibilità del linguaggio eppure sulla sua inutilità: tra queste ed altre contraddizioni si dipana un racconto che, al pari d’una riuscita opera letteraria, getta luce sul significato dell’esistenza percorrendone le luci della ribalta ma anche e soprattutto le ombre, le zone oscure, gli anfratti più reconditi.
Insomma, neanche un rigo appare superfluo in questa sorta di postmoderno romanzo veristico truccato da autobiografia, che si chiude con dei versi scritti per la terza moglie, Diletta D’Andrea. E se anche dovesse perdere la sfida ermeneutica lanciata dall’autore, il lettore potrà comunque dare una risposta convintamente affermativa alla domanda che Gassman con piglio metaletterario si pone: «Ha un senso questo voltarsi indietro e riannodare le fila del tempo passato?».